Leggermente

Riecheggia nella mente. Percuote il pensiero. È il ricordo, perfino nostalgico, di un torto subito. È solo un ricordo, eppure vive nelle nostre azioni quotidiane. C’è chi non prende la parola in pubblico. Chi non scrive una lettera al direttore. C’è chi non balla, chi non suona, chi non canta – se non da solo. C’è chi non decide. È una forma di inquinamento del sé. Che fa prevalere il se, sempre.

Condiziona  il nostro eco-sistema interiore. Addolora, aggrava, appesantisce. Impedisce. Limita. Non è un sano senso del limite, no; al contrario è grottesco, smisurato, enorme. È un enorme senso di disagio, di vergogna, di colpa.

Ci sentiamo responsabili per qualsiasi disastro avvenga in un raggio di 3000 km da noi.

Da noi, solo da noi, dipendono il benessere di un partner, i fallimenti di un figlio, le malefatte di un amico. Invece non solo non dipendono da noi, ma in larga misura ne paghiamo il pegno. Non fosse che sì, siamo responsabili di qualcosa, precisamente del fatto di non esserci mai curati di noi. Con fermezza, calore, decoro.

Inoltre, siamo responsabili del fatto di non aver mai parlato di noi. Di non aver mai detto la nostra verità. Di non aver scelto, dichiarato, e apertamente (sebbene dolcemente) praticato il nostro essere.

Sopportiamo (ancora?) giudizi perduti. Per scherzo ci hanno feriti. Per ferirci hanno scherzato su di noi. Avevamo appena 4 anni. Poi 15. Poi 32. Poi 50. Ci è stato detto che non eravamo abbastanza: adatti, capaci, adeguati.

La capacità, a dire il vero, è solo un indice di misura. Noi tutti abbiamo un limite, ma quasi nessuno sembra avere una misura: quando parla, quando giudica, quando ferisce.

Colpa e presunzione, in tal modo, si alimentano reciprocamente. Colpa e presunzione colpiscono chi ci è accanto.

Se soffriamo di sensi di colpa, ancorché immotivati, ne faremo soffrire gli altri – pressoché immancabilmente.

Un’azione ecologica degna del nome implica, dunque, che ci prendiamo cura di noi stessi, del nostro valore, del nostro volere. In primo luogo ascoltandoci. Ascoltandoci senza alcuna fretta. Senza alcun giudizio già pronto. Con sguardo fermo, sì, ma aperto e sereno.

Ne sappiamo qualcosa? Ci siamo sentiti ascoltati così, almeno una volta? Abbiamo parlato, per ore, senza ripensamenti, senza rimpianti, senza strategie, senza manipolazioni? Senza sopportare interruzioni, sostegno, aiuto, consigli non richiesti? Senza contare le ore e i minuti? Senza pensare a nulla? Per pensare – bisogna smettere di pensarci troppo. E andare. Leggermente. Come ombre su sassi morbidi.

G. B.

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Amore non amato 1

Ora una lacrima taglia il tuo sguardo. Non è pianto ma rimpianto: presenza dell’assente, nostalgia di chi neppure conosci ma ricordi. Quante volte hai taciuto il tuo amore? Quante volte hai vinto te stesso, te stessa, per convincerti che non provavi neppure quel che però provavi?

Ora, fermo-ferma come sei nel tuo silenzio, taci e apprendi. Guardi la tua vita come da un punto alto e pulito, con gli occhi di un osservatore fermo e sereno. Ti è chiaro, finalmente, quel che non hai voluto sentire? Non hai sentito le tue ragioni, in passato, oppure hai voluto udire solo quelle – per mettere a tacere il tuo cuore?

Oh, cuore e ragione sono quello che sei; ma non solo. La passione, dove l’hai lasciata? Non hai mai detto un amor a nullo amato, rinnegandoti? Non hai mai detto un amore neppure pensato, che però sottilmente nutrivi?

Tacere è un po’ morire, alle volte, Non hai parlato per decoro, distrazione, decisione. Era solo paura, la tua.

Era paura del no che avrebbero potuto dirti e che perciò hai detto tu per primo, per prima. Hai detto no a te stesso, a te stessa. Ora taci. Sul divano domenicale una lacrima, ma non proprio un pianto, taglia il tuo sguardo scuro.

Non è pianto, è rimpianto. Continuerai a tacere la verità a chi potrebbe respingerla? Solo perché potrebbe ferirti?

Non sarebbe peggiore il danno di un nuovo silenzio?

Dichiara quel che devi. O dovrai patire quel che taci!

G. B.

nuovaera