Acqua di tutti

L’acqua è un bene comune. È un luogo comune dire che lo sia. Perché non è del tutto vero che l’acqua è di tutti e per tutti. Lo è un po’ di più di alcuni. Di chi la vende, per esempio. Eppure basta aprire un rubinetto e riempirsi un bicchiere, d’estate, per dissetarsi. Quasi ovunque. Almeno in Italia. L’acqua pubblica è generalmente buona. Nonostante le difficoltà nella distribuzione e, talvolta, nella qualità complessiva del servizio idrico di molte parti d’Italia.

Tantissimi italiani, tuttavia (e non ci riferiamo a quelli residenti nei Comuni noti alle cronache per l’erogazione di acqua all’arsenico o contaminata) preferiscono bere acqua minerale in bottiglia. L’acqua minerale in bottiglia ha effetti diuretici (sic), facilita l’eliminazione dell’acido urico e i processi digestivi, elimina l’acqua, rende snelli, rende felici, fa felici le ditte che imbottigliano le acque in bottiglia. Non tutte le acque in bottiglia sono di pregio. Le acque di pregio, imbottigliate e vendute in mezzo mondo per le loro indiscusse qualità curative, sono acque di tutti. In teoria. Vediamo come stanno le cose. Facciamole chiare come l’acqua pulita, se possibile. «Nel 2012 in Italia sono stati consumati 12.45 miliardi di litri di acqua in bottiglia. Il consumo di acqua in bottiglia è cresciuto in modo costante a partire dal 1980. L’anno 2004 il consumo di acqua in bottiglia ha subito un drastico arresto, anzi una vera flessione (del 27%), per poi tornare a risalire negli ultimi 10 anni. I dati del rapporto Beverfood relativi al 2012 attestano che il maggiore consumo di acque in bottiglia si è registrato nel nord Italia (49%), con il centro e il sud (isole comprese) che consumano rispettivamente il 25% e il 26% delle acque minerali vendute su scala nazionale. Gli stabilimenti impegnati nell’imbottigliamento delle acque sono 156. Lo fanno per un considerevole numero di marche: 296. Le Regioni Lombardia, Piemonte e Sicilia vantano, per così dire, 18, 13 e 10 stabilimenti per l’imbottigliamento di acque successivamente destinate a ben 37, 35 e 23 diverse etichette. La Puglia ha “soltanto” 3 stabilimenti per l’imbottigliamento e 4 marche: siamo i primi tra gli ultimi, in questa bizzarra classifica di vendite.«

Dal momento che le acque imbottigliate finiscono prevalentemente in contenitori di plastica usa e getta, (e non più nelle nostalgiche bottiglie di vetro a rendere in auge negli anni ’70), in un anno si buttano via, in Italia, 6 miliardi di bottiglie di plastica da un litro e mezzo, vale a dire una quantità di petrolio equivalente del peso di 450.000 tonnellate – con relativa emissione in atmosfera di oltre 1.2 milioni di tonnellate di CO2. È una limpida catastrofe ambientale. Di là dai riciclaggi virtuosi delle ditte impegnate a pubblicizzare bottiglie realizzate con il 25% di plastica rigenerata.

Ogni italiano consuma mediamente 192 litri di acqua in bottiglia l’anno. Del consumo, spesso inutile, di acque minerali e oligominerali (le cui virtù si avvertono maggiormente andando dritti alle Terme, ma non tutti possono permettersi un tale lusso), si avvantaggia chi fa profitti non sempre limpidi. Le ditte imbottigliatrici pagano alle Regioni un canone fisso per l’acqua emunta e poi messa in bottiglia. Questo perché le ditte hanno la concessione e non la proprietà delle fonti, sebbene si comportino come se fossero le proprietarie, e non le concessionarie, di tali sorgenti. I canoni pagati dalle ditte imbottigliatrici sono irrisori, incoerenti e illogici. Variano in ragione dei metri cubi prelevati o, ancor peggio, in rapporto alla grandezza delle superfici di territorio su cui insistono le fonti. Se il secondo caso è chiaramente irrazionale – perché in teoria con un canone risibile (30 euro annui per ettaro) è possibile prelevare tutta l’acqua che si riesce a prelevare; il primo caso si presta a grossolane contraddizioni di mercato – nel libero mercato che tanto libero non è, se non per chi specula alla faccia di chi se la beve.

Vengono così al nodo pettini dai denti troppo larghi; o vengono al pettine nodi appena visibili. Provincia Autonoma di Bolzano, Emilia Romagna, Sardegna, Molise, Puglia, praticano canoni letteralmente “superficiali”: ovvero per la sola superficie di terra su cui sorgono le fonti. I canoni di questo tipo sono bassi e poco remunerativi per le tasche di noi tutti. In altre Regioni (Campania, Basilicata e Toscana) chi preleva l’acqua a fini commerciali paga appena 1 euro per metro cubo emunto. Considerando quanto costa un litro di acqua minerale possiamo immaginare chi ci guadagna. In un metro cubo ci sono, scolasticamente, 1000 litri. Se il costo medio di un litro di acqua minerale è di 0.26 centesimi, i consumatori finali pagano soltanto per l’1% il costo effettivo dell’acqua. Per il resto pagano: concessionari, imbottigliatori, trasportatori, pubblicitari, venditori. Dunque, costa meno l’acqua di casa. Senza considerare che gli Acquedotti ce la portano a casa, l’acqua; la depurano, la analizzano decine di volte al giorno, si occupano delle reti, delle fognature, delle perdite. Anche chiarendo che detti Acquedotti (ovvero le Società che li gestiscono) possono far meglio è pur vero che garantiscono interessi collettivi. Non fanno altrettanto le ditte che vendono l’acqua “di tutti” a caro prezzo, senza restituire alcun beneficio ai territori e alle comunità.

Le Regioni più ragionevoli, in fatto di canoni di affitto e criteri di gestione delle fonti di acqua, sono la Regione Lazio e la Regione Sicilia. La Regione Lazio, in particolare, pratica tre differenti tariffe: per gli ettari interessati, per i metri cubi emunti, per i volumi effettivamente imbottigliati. È noto che il Lazio vanta numerose fonti idriche di altissima qualità. È noto che nella Roma imperiale era diritto di ogni cittadino poter disporre di acqua gratuita per tutti gli usi possibili e necessari. Cittadinanza vuol dire anche avere acqua e fogne, forzando il concetto. L’elettricità è arrivata dopo. Così internet. L’acqua è necessaria perfino al buio. Da sempre. Per sempre.

La morale è semplice. Dovremmo bere acqua del rubinetto, specie dove essa è garantita ed è di qualità. A meno di praticare in privato comportamenti opposti a quelli dichiarati in pubblico parlando di beni comuni, dovremmo bere l’acqua di casa. La Politica di Palazzo dovrebbe irrobustire le pratiche di vantaggio sociale fatte in nome dei cittadini: curando davvero i beni collettivi e ricordandosi di onorare l’esito del recente referendum sull’acqua. Inoltre, la Politica dovrebbe garantire la qualità delle acque di falda, scongiurare l’inquinamento di aria e suolo, promuovere l’uso dell’acqua pubblica negli ospedali, nelle mense pubbliche, nelle scuole e negli uffici.

Il quesito più grande, tuttavia, riguarda il potere di scelta di noi cittadini – oggi ridotti a meri consumatori di qualsiasi cosa sia in vendita. La domanda è: perché bere acqua in bottiglia? Perché consumare plastica, combustibili, risorse non rinnovabili quando uno dei segni della civilizzazione – che in Europa coincide con l’urbanizzazione stessa – è il fatto che abbiamo acqua buona nelle nostre case, piazze e villaggi? Cosa implica il consumo di acqua in bottiglia? Fa sentire benestanti ed evoluti? Oppure non ci fidiamo della qualità delle acque pubbliche? Se fosse per l’ultima ragione, chiediamo risposte certe a chi ci amministra, alle Asl, ai Sindaci. L’impressione che si ha, purtroppo, è un’altra. Ormai crediamo che tutto dipenda dal nostro “potere” di acquisto e ci siamo abituati a comprare l’essenziale rivendicandone la sola parte superflua. Perfino quando sono in questione diritti fondamentali: salute, scuola, acqua, paesaggio, felicità.

Felice è quello slogan di Legambiente che recita: “imbrocchiamola”! Imbrocchiamo l’acqua di casa e pretendiamo che sia sempre di qualità. Beviamola con gusto. Questo è il messaggio che affiderei a una bottiglia vuota (di vetro) destinata a chicchessia. Conviene, però, tenere la bottiglia. Serve a imbottigliare l’acqua del rubinetto.

Giovanni Bongo

beviacquapubblica