Il principio ciclosofico fondamentale è: ogni corpo su una bicicletta assiste a uno spostamento del proprio sguardo sul mondo. All’esterno ci si sposta in bicicletta, ma all’interno è la bicicletta che ci sposta.
Didier Tronchet
Appartenere a una moltitudine silenziosa, solerte, resiliente. Procedere con passo regolare, deciso, dolce. Milioni, quanti siamo, di donne e di uomini liberi da una schiavitù mentale prima che fisica. Formicolare nelle arterie delle piccole e delle grandi città. Non fare clamore. Emettere, semmai, un oleoso tintinnio metallico.
Pedalare. Andare in bici. Rinunciare all’automobile. Lottare in famiglia, (“contro” i nostri cari). Convincere, a fatica, gli amici. Indossare mantelline quando piove. Sfidare il vento. Traversare stradine tradite dai più e sconosciute quasi a tutti, se non a chi le frequenta con intenzioni fosche.
Pedalare, pedalare. Non pagare bolli. Non pagare carburanti. Produrre pochissime scorie: sudore e acido lattico. Espellere anidride carbonica compensata; ossigenare i nostri tessuti. Pedalare e piantare fiori, arbusti, alberi.
Utilizzare calorie corporee, un tanto al chilo per chilometro percorso. In bici, fare di tutto: la spesa, accompagnare i figli, stare con altri e da soli. Pedalare per andare a lavorare: portare gli attrezzi; caricarsi computer e libri; portarsi le idee, anzi rafforzarle così, sul sellino.
Essere intellettuali manovali, anzi pedalatori. Sapere che si è parte di una rivolta silenziosa, visibile, sorridente.
Avere bici nuove o vecchie, chic e fuori catalogo, accessoriate e scombinate, con luci a led e fanali a dinamo. Avere bici con le marce o a scatto fisso. Avere la pedalata assistita (alcuni) e le gambe forti (i più).
Perdere peso, irrobustirsi, parcheggiare con facilità, non inquinare, poter salutare qualcuno senza finire in doppia fila.
Pedalare: velocità lenta, lentezza rapida.
Scampanellare ingenuamente, ma essere uditi. Illuminare quanto basta, ma essere visti.
Conoscere il respiro delle città, le fisionomie del territorio, le pieghe dei luoghi, le fatiche delle bellezze, le ferite delle bellezze.
Non sfrecciare, ma andare dritti caracollando un po’. Dai sellini, alcuni comodi altri meno, scorgere la rude dolcezza del mondo.
Vederne tante. Notare i colori delle stagioni; ma anche pneumatici abbandonati sul ciglio di strade aperte come domande senza risposta. Notare cosa accade dopo una modesta pioggia alle nostre strade divorate dalle voragini.
Andare in bici: innovare, fare democrazia dal basso della strada, promuovere esercizi di connessione a pista larga. Pedalare, imparare a parlar piano; ricordare a chi urla, magari al volante, che non ha più molto da dire.
Pedalare, pedalare, pedalare.
G. B.

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