Un discorso comunitario è, in primo luogo, un discorso. Che va fatto materialmente. Che va curato apertamente. La comunità è un discorso pubblico. La fase socio-politica attuale è caratterizzata, in tutta evidenza, dalla progressiva degradazione del discorso pubblico, che sovente è insulto, diktat, semplificazione grottesca, allucinazione generalizzata.
La parola, in quanto preziosa e rischiosa origine di relazione, implica altresì una sorta di collocazione esistenziale: ci si annida nelle parole usate, in quelle immaginate, in quelle sconosciute, in quelle mai possedute.
Non fosse che le parole, per quanto disponibili, appartengono solo a chi sappia farne un uso consapevole: si tratta della fisiologica, e sotto certi aspetti non del tutto democratica, accessibilità delle parole.
Non tutto quel che è accessibile è benefico. Riflettiamo, dunque, sul perché parliamo in un dato modo; o ancor prima su perché diciamo quel che diciamo.
Nel discorso c’è un prima e un dopo. Dopo, non è più come prima. Nel bene e nel male; e di là dal bene e dal male.
Dopo aver detto quello che non pensavamo, e che pure abbiamo gridato; dopo aver sottaciuto quel che avremmo potuto dire, ma abbiamo detto tardi. Dopo aver inutilmente offeso, e tardivamente chiesto scusa. Dopo, non è più come prima.
Curiamo il discorso. Il discorso è di un corpo capace di dire. Non sempre, però, un corpo è capace di fare discorso solo perché dice. Prestiamo maggiore attenzione ad ogni parola.
G. B.
‘Non uccidere’, dice il V comandamento. Non attentare alla dignità e alla libertà di qualcuno. Non puntare contro qualcuno un’arma e allo stesso modo, con la stessa serietà, dico: non pronunciare cattiverie, non offendere. Abbiamo mani con cui fare il bene e possediamo il dono della parola per motivarlo e promuoverlo. Benedetta sia la parola quando lo fa. Benedetta sia, per la verità di cui è capace. Per la spontaneità che le rende vita, per la mente che la elabora e per la memoria che la custodisce. Benedetta sia la parola, quando è ironica, quando è malinconica e quando é stimolante. Quando non è gonfia di autorità e quando non fa della persuasione la sua cinica finalità. Benedetta la parola quando é libera, quando è forte, quando smuove, quando scuote e quando illumina. Benedetta sia la parola, per le infinite possibilità di incastri, di successione e per la sua apertura ai cambiamenti. Sia benedetta quando emoziona, quando commuove, quando si veste di quella sottile ironia che punzecchia senza, però, recar dolore. Benedetta sia. E dico parola per dire comunicazione, condivisione, confronto e scambio. Dico parola per dire sguardo che osserva e percepisce, orecchie che ascoltano e comprendono, mente che riflette ed esprime. Dico parola per dire vita, per dire poesia, per dire rivoluzione. Dico parola e penso al dono più grande che m’é stato concesso. Che ci è stato concesso. E lo dico e lo ripeto poiché a lei va reso onore ogni giorno: con il tono di voce che le da forma e con la bellezza che le si affida, affinché questa sia testimoniata, trasmessa e compresa. Benedetta sia. Perché è da sempre e per sempre sarà.
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“Benvenuta parola che cerco, carezza fatta di due consonanti e tre vocali, parola che ti è forse lontana ma che per me è linfa vitale.” (P.M.)
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La parola che cerco è grazia. Forse gratuità. Ringraziamento. Spregiudicato ascolto…
G. B.
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