Animula vagula, blandula, Hospes comesque corporis, Quæ nunc abibis in loca Pallidula, rigida, nudula, Nec, ut soles, dabis iocos.
Publio Elio Traiano Adriano
Ci accorgiamo di una cosa quando non c’è più. Forse è così sempre. Per tutti e ovunque. È di tutti e ovunque il vizio di vedere le cose quando mancano già da un po’. Sentiamo esclamare: ti ricordi quell’albero secolare? La statua nella piazza, ricordi quella statua nella piazza?
Le risposte imbarazzano: Cosa? Ah, sì. Non più tanto, sai. Forse. Ah, certo che sì.
La mente degli uomini è vantaggiosa e ironica a un tempo. Le scelte degli uomini lo so meno. Meno ironiche e meno vantaggiose.
Fino a che ci sono, delle cose importa poco ai più. Se mancano, invece, tutti a dire: e adesso come faremo?
Apprezzare le cose significa rammentarne la presenza instabile. Un albero può crollare per un vento improvvido. Una piazza può essere cancellata da un’orda di balordi o da un architetto sventato.
Si tratta, in qualsiasi circostanza, di elevare un tributo di memoria e di applicarlo al presente: per fermarne gli attimi meno fuggenti.
Si tratta di una nostalgia proiettiva, da applicare al futuro. Quasi a volersi scusare dell’inevitabile distacco che, prima o poi, ci coglierà tutti e a dispetto della nostra volontà di presenza.
Percepire la fragilità delle cose è come fare ammenda per la propria transitorietà materiale: di cui rechiamo l’immeritata colpa e, spesso, la diretta responsabilità. Aver cura delle cose è dunque necessario, sebbene non decisivo. Il rimedio è solo parziale, ma umanissimo.
Tuttavia, anche una cura estrema non protegge le cose dalla grande fatica (che esse fanno) ad essere. Almeno finché ci sono e le vediamo, le cose vanno carezzate. Prima che ce le tolgano. Prima che svaniscano. Prima che decadano, magari a dispetto della loro ancora viva floridezza e a causa della nostra scarsa capacità di apprezzarle.
G. B.
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