Almeno una volta la settimana. Poi due. Tre. Fino a sei. Magari fino a sette. Si può provare a non mangiare carne. Senza essere vegetariani, oppure diventando vegetariani.
Mangiare carne significa, il più delle volte, cibarsi di animali morti male dopo aver vissuto peggio. Senza equilibrio tra ragioni del vivere e motivi della umana sopravvivenza.
Non esistono quasi più maiali uccisi per una intera comunità e allevati con una qualche forma di decoroso rispetto. Non esistono galline consumate in brodo e morte (quasi) di vecchiaia.
Gli “animali da carne”, oggi presenti in lucide vetrinette di macellerie industriali, sono meri pezzi di carne concepiti per il loro esclusivo fine commerciale: consumo finale.
Pezzi fin dalla nascita, tali animali (la parola, si badi, contiene l’anima) sono “cosificati”: fatti a pezzi già in fase di progettazione.
Esistono filetti, costate, costatine: non esseri senzienti con un respiro e un comportamento. Non mangiano nel prato, tali animali. Non razzolano nell’aia.
Sottoposti a cure ingrassanti violente e tossiche, essi finiscono nelle nostre pentole con un implicito (ed enorme) carico di dolore, antibiotici, ormoni della crescita, pesticidi (presenti nel loro cibo), tossine da stress, violenza.
Così è per la strage di Pasqua. Non agnelli uccisi da pastori saggi, capaci di distinguere il momento della crudeltà da quello della pietà. Semmai animali carcassa allevati chissà dove e uccisi in serie, per soddisfare palati incapaci di distinguere sapori forti (ma veri) da sapori standard, dunque falsati.
C’è da pensarci, senza inutili assilli colpevolizzanti: con coscienza vigile, con serena consapevolezza. Meno carne vuol dire: meno emissioni di gas serra, meno acqua consumata in allevamenti industriali, meno sperequazioni alimentari e ingiustizie sociali, meno violenza.
G. B.