Il glifosato, commercialmente noto come Roundup, è l’erbicida più usato al mondo. Dal 1992 al 2012, in appena venti anni, il suo uso è cresciuto di 140 volte nei soli Stati Uniti. L’Italia, che ha il triste primato del maggiore consumo di erbicidi dell’Unione Europea, con valori di ben due volte superiori rispetto a quelli di Francia e Germania, è anche il Paese con il più alto numero di pesticidi riscontrati nelle acque di falda: ben 175 tipi diversi, con il glifosato tra gli altri. Maria Grazia Mammuccini, portavoce del Tavolo delle associazioni ambientaliste e degli agricoltori biologici (Aiab, Associazione per l’agricoltura biodinamica, Fai, Federbio, Legambiente, Lipu, Slowfood, Wwf), ha recentemente denunciato che: “Dopo il parere dell’Agenzia Internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) che lo ha definito un probabile cancerogeno, l’Olanda sta mettendo al bando il glifosato mentre Francia e Brasile si accingono a farlo. Il Governo Italiano invece si è dichiarato a favore di un ‘uso sostenibile dei prodotti fitosanitari’ che prevede un ampio utilizzo di questi prodotti sotto l’etichetta della sostenibilità“. Nell’attesa di comprendere quale possa essere “l’uso sostenibile” di un cancerogeno accertato, io traggo le mie personali conclusioni. Dico a ogni agricoltore, professionista o amatoriale, di non comprare più il glifosato (commercialmente noto come Roundup) perché fa male, è tossico, è nocivo, è bioaccumulabile, è persistente, è cancerogeno. Se coltivate, fatelo in modo biologico. Altrimenti, lasciate a terra la zappa. Perché coi veleni non ne vale proprio la pena. G. B. (Riproduzione parziale dell’articolo “Faccio il nome”, in uscita sabato 11 aprile su: ilvolantinoditricase.it)