Per sempre, mai!

Esci sull’uscio. Ed è già sera. Notte, a dar credito al cielo. Stelle lucide brillano come soli remoti eppure stabili, sebbene in moto.

Sono là da tempo, la loro luce è antica, è il nostro tempo remoto che si fa presente: senza tradire l’ansia di volere correggere i nostri errori.

Dire per sempre, per un mortale, è peccare di audacia al cospetto degli astri. Dire “è finita, per sempre”, “me ne vado, per sempre”, “addio, per sempre”; “è finita, per sempre”: davvero? Perché abbia luogo, un sempre deve essere pronunciato da un essere infinito. Perché abbia tempo, un sempre, deve essere pronunciato da un essere immortale.

Noi siamo forse immortali, infiniti? No. Abbiamo già calcato il luogo del nostro abbandono, per dire di volerlo abbandonare. Abbiamo già amato chi diciamo di voler odiare, per dire di volerlo odiare. Abbiamo già avuto amicizia per chi diciamo di voler salutare per sempre, per dire di volerlo salutare.

Che stiamo facendo a noi stessi, tanto da voler violare le leggi del tempo? Non sarebbe meglio trarre da sé il perdono che ognuno merita per essere peccatore, ovvero capace di camminare e, con ciò, di inciampare nei granelli di sabbie dall’apparenza innocente?

Il tempo, questo grande ingannatore, ci rende immodesti – alle volte.

Non ne siamo padroni, ma partecipi. Non lo dominiamo, semmai ci adorniamo dei suoi momentanei vessilli.

Come in un bosco salmastro, pineta odorosa di sali, quel che giunge da lontano è quel che più appare prossimo. Eppure sfuggirà.

Come in un bosco montano, faggeta imperiosa, quel che appare prossimo è quel che presto sfuggirà. Eppure è là, momentaneamente nostro.

Amiamo e diciamoci tutto, anche l’astio. Senza mai una volta dimenticare che siamo noi, a guardar le stelle. Le stelle non ci vedono. Brillano senza sapere  quel che noi sappiamo: che la luce svanisce, prima o poi. E prima o poi ritorna. Con noi, e senza, nel tempo. Finché ci siamo, tuttavia, è tempo per noi di non dire sempre mai; è tempo di dire: è possibile.

Giovanni Bongo

cielo-stellato

30 maggio

Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti dei «goal». Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità.

Pier Paolo Pasolini

Che il calcio sia bello è vero a partire dal fatto che lo si fa con una sfera. Geometria perfetta. Non si conoscono giochi più belli e immediati. Basta avere un pallone. O, se non si può, basta avere una latta, uno sferoide di stracci, mai del tutto sferico; qualcosa che ricordi quel che non si ha: un simulacro di perfezione, un accenno di possibilità, un richiamo all’accesso ad una gaiezza che non sempre è di tutti.

Ricordo quanta gioia c’era nel donare, nel ricevere, un pallone. Un pallone gonfio, da tirare forte, da tirare a effetto, da sentire cadere e vibrare sull’asfalto, sul terriccio, sulla breccia. Faceva un rumore tutto suo, il pallone rimbalzante. Se poi era di cuoio, allora era da tenere stretto. Era già un trofeo ancor prima di aver vinto qualcosa.

Era da sudarci dietro. Da giocare fino allo sfinimento. Da sedercisi sopra. Da graffiare un po’, a dimostrare le battaglie fatte, senza scorticarlo tuttavia: perché un pallone doveva durare quanto più possibile.

Un pallone era da tenere in grembo. Nel cavo del gomito. Era da prestare, cauti, solo ad amici di comprovata fedeltà. Era da ricevere con le dovute maniere, quasi galanti. Era da sgonfiare un po’ se troppo duro. Era da coccolare. Era da dormirci sopra al mare, con la testa poggiata sopra, in atteggiamento noncurante (e un po’ gradasso), mostrando i muscoli tesi della giovinezza tesa.

Era da inseguire sulla sabbia, mentre le ragazze ferme a guardare forse si distraevano o forse no: perché mai le donne non dovessero amare il calcio, non te lo spiegavi; oppure era solo scena, non dovevano dare a vedere che la partita di pallone piaceva anche a loro?

Il pallone era da gonfiare. Perché un pallone sgonfio non si può tenere, non si può accettare.

Il pallone sgonfio è come un prato secco. È come una tazzina sporca. È come un bicchiere opaco. È come una camicia sgualcita; è come un libro accartocciato. Il pallone deve essere gonfio, per dignità sua e di chi lo possiede. Se giocassimo tutti con dignità, le cose serie sarebbero davvero tali.

Di nuovo, vien facile di dire che il calcio è metafora della vita. La vita è una gran bella partita. Se la giochi pulito. Tanto perderemo tutti, è ovvio. Non tutti, però, avremo giocato bene. E pulito. Soprattutto pulito. Con modestia. Con onore. Con sapienza.

Non tutti saremo ricordati per essere rimasti fermi, lucidi, concentrati. Sul dischetto del calcio di rigore. In una finale calda di una sera di maggio. Vestiti di bianco, come a una festa allegra, come a una festa triste. Seri. Tirando secco. Gonfiando la rete. Credendo alla vittoria. Per pochi secondi. Perdendo per un soffio. Per pochi metri. Perdendo senza meritare sconfitta alcuna. Restando dignitosi. Con il pianto in gola e la testa dritta. Come Capitani.

Bisogna giocare pulito. Passare il pallone di cuoio a chi è meno forte eppure è là, con noi, e se la suda, si batte fino all’ultimo respiro, non cede un centimetro.

Bisogna giocare pulito. A testa alta. In squadra ma, in fondo, da soli. Bisogna giocare pulito, non per il danaro, non per la gloria, non per il successo, non per altro che per la verità. Sì, per quella individuale verità che ognuno porta dentro.

Allora, sì, vinceremo una volta, due, tre; perderemo di più; e sarà molto meglio aver perso che aver vinto sempre – chissà a quale prezzo.

Perdere è vivere, non solo vincere, come in una notte calda, il 30 maggio, con la città in festa, con la città in lacrime, con la città piena e vuota.

Col pallone pulito tra i piedi.

Giovanni Bongo

Foto: dal web

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Dodici

Ecco alcuni dati sullo spreco di cibo “prodotto” nel mondo, in particolare in Europa:

1. Sono 1,3 miliardi di tonnellate di cibo sprecate ogni anno.

2. Sono mille miliardi i dollari sperperati, ogni anno, per il cibo perso o sprecato. 

3. Il cibo sprecato rappresenta la terza fonte di emissione al mondo di anidride carbonica. Segue, in questa “classifica”, Stati Uniti e Cina. 

4. Con un quarto del cibo sprecato potrebbero essere sfamate i circa 800 milioni di individui che soffrono la fame nel mondo. 

5. Nei paesi ricchi si spreca tanto cibo l’anno (222 milioni di tonnellate) quanto ne viene prodotto nell’Africa sub Sahariana. 

6. Il consumatore europeo medio spreca, ogni anno, una quantità di cibo superiore al suo peso corporeo. Oltre cento chilogrammi per un peso medio di 70 chili. 

7. Il consumatore europeo medio spreca 15 volte in più di quello africano. Centoquindici chili di cibo contro 11. 

8. La causa del cibo sprecato in Africa è da ricercarsi anche nell’assenza di tecnologie che consentono lo stoccaggio e la conservazione.

9. Il cibo sprecato ogni anno in Europa potrebbe nutrire 200 milioni di persone. 

10. Sono 3,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica emessa attraverso lo spreco di cibo. Il cibo buttato è cibo sottratto a chi non ne ha e diviene una forma di inquinamento. 

11. Un italiano sperpera 454 euro l’anno a causa dei suoi sprechi alimentari. 

12. Serve un quarto dei boschi italiani per assorbire l’anidride carbonica prodotta annualmente con lo spreco di cibo.  

(Fonti: Fondazione Barilla Center For Food Nutrition – Repubblica.it)

Verifichiamo pure tali dati. Contiamo fino a dodici. Incrociamoli con le stime fornite da altri centri di ricerca e altri istituti, enti, fondazioni, istituzioni. Di là da tutto, la finiamo di buttare via il cibo buono da mangiare?

G. B.

Foto: dal web

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Sincerità

Sta succedendo a te, non sta succedendo a me.

James Douglas Morrison (rivolto al poliziotto che lo stava arrestando)

La vera sincerità non millanta. Non ferisce. Non dice il “vero” per dire altro; non elogia per screditare, non abbraccia per discriminare. La vera sincerità non dice “vola” per spezzare l’ala come un sasso; non dice “fai” per trattenere; non dice “hai talento” per sminuire quel che fai mentre lo fai, in assenza o in attesa di occasioni migliori. La vera sincerità non rassicura mentre insinua il dubbio che tu non sia all’altezza.

Quanti di voi si sono sentiti umiliare da chi avevano accanto, da chi avrebbe potuto scorgere il loro valore, da chi (forte di un momentaneo ed effimero potere) avrebbe potuto (dovuto?) offrire loro vere opportunità  – non finte occasioni create solo per tenervi fermi al palo della gelosia, dell’invidia, dell’eterna promessa d’una gloria perennemente rinviata?

Così è la massa degli uomini? Ingiusta con chi prevede i tempi, precede le visioni, intuisce il divenire; con chi ha talento ma non fortuna? Così è la società nel suo complesso, ovvero chi la popola senza particolare dignità: preferisce i vili, gli ipocriti, i mediocri, gli obbedienti a qualsiasi costo, gli omertosi, i lacchè, i prudenti per viltà, i disonesti?

Ecco, non bisognerebbe mai lasciare il potere ai mediocri: essi inchiodano il profeta alla sua croce; incapaci di bene e di male, ignavi come despoti senza potenza, deridono il filosofo e il poeta, decretano la morte di Giordano Bruno, sanciscono la solitudine abissale di Nietzsche, accettano la precarietà dell’intellettuale (ignoto) lasciato a patire in un call center, in un pub, in un ipermercato di periferia.

Sapienza, libertà interiore, coraggio, dignità, onestà, sensibilità, passione, amore per il prossimo, attenzione al mondo, cura per le cose: ecco le “competenze” che nessuna scuola può stabilire per decreto, nei labirinti irragionevoli dei suoi percorsi obbliganti.

Insegniamo ai nostri figli il rispetto, la fedeltà alla parola data, la capacità di cambiare idea senza, con ciò, capovolgere (stravolgendolo) il senso delle cose già pensate. Insegniamo l’onestà con gli altri, la dignità con se stessi.

Insegniamo a noi stessi, per cominciare, tutti i valori che pretendiamo di vedere onorati da chi ha il potere di decidere in nostra vece.

Impariamo a decidere per noi stessi, non a postulare con l’inganno ma a governare alla luce del sole.

Impariamo a praticare i nostri pensieri, a farne carne, ad essere fedeli non ad una astratta idea di fedeltà, non ad uno sterile legalismo, bensì alla giustizia fatta volto e alla coerenza fatta autenticità.

Scegliamo non quale carriera intraprendere (a scapito degli altri) ma quale talento far sbocciare – per la gioia di tanti, oltre che per onorare la nostra stessa natura.

Quando incoraggiamo, facciamolo non per sminuire implicitamente, quasi fossimo gli elargitori di una grazia sgraziata; piuttosto diamo forza a chi è caduto in disgrazia suo malgrado, senza aver demeritato, colpito dai dardi della fortuna avversa e per il momento costretto ad una condizione inferiore ai suoi mezzi.

La sincerità non è l’elogio mellifluo fatto per garantirsi una menzione, né la stroncatura brutale fatta in ossequio ad una ideale schiettezza, che invero è parente della brutalità più rude.

La sincerità è una forma di cura: aiuta a volare chi ha l’ala chiusa, aiuta a correre chi ha le lunghe zampe tremanti, aiuta a scrutare l’orizzonte chi ha lo sguardo profondo abbassato. La sincerità è una carezza maieutica, è ascolto, in primo luogo attenzione. Si tratta di grandezza d’animo, non di ristrettezza di cuore.

La sincerità non è di chi dice di volere il nostro bene – ma pensa invece al suo orgoglio; di chi dice di volerci bene – ma pensa invece alla sua concezione di successo. La sincerità non è l’applicazione di un criterio generale ad un ingegno particolare, come tale non compreso da nessun criterio perché nuovo criterio a se stesso.

La sincerità è la libertà in forma di parola: che dice mentre ascolta; che ascolta mentre dice.

Giovanni Bongo

poesiablog

Petizione contro gli sprechi alimentari

Da change.org:

Ho appena firmato la petizione, “C’è chi spreca e chi muore: approviamo una legge contro gli sprechi alimentari”.

Credo che questo sia importante. La firmerai anche tu?

Ecco il link:

http://www.change.org/p/c-%C3%A8-chi-spreca-e-chi-muore-approviamo-una-legge-contro-gli-sprechi-alimentari

Grazie“.

Firma anche tu.

G. B.

Foto: dal web

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Biodiversità

Se ne parla molto; si è convinti che la biodiversità vada preservata. In astratto, sono d’accordo perfino coloro che ne minacciano l’esistenza: i “bibitari” della multinazionale della bibita più bevuta del mondo o i produttori dei panini meno sani del pianeta terra. Non meritano di essere citati perché non meritano neppure la peggiore pubblicità possibile. Sono sponsor dell’Expo di Milano: fatto increscioso, vien da dire.

Biodiversità: ovvero vita. La stiamo minacciando, aggredendo, erodendo. Con molteplici scelte, abitudini, comportamenti errati, azioni smisurate, politiche prive di lungimirante intelligenza.

Un campo di grano uniforme: è una minaccia alla biodiversità.

Mangiare sempre (e solo) una varietà selezionata di mele levigate, prive di imperfezioni: una minaccia alla biodiversità.

Eliminare fiori, arbusti e alberi dalle città: una minaccia alla biodiversità.

Ogni anno perdiamo 13 milioni di ettari di foreste tropicali. Rischiamo di perdere (a causa dei cambiamenti climatici) la totalità delle barriere coralline entro l’anno 2050.

In Europa (Eurozona, moneta unica, conti a posto, contenimento del deficit con il non conseguente contenimento della diffusa deficienza intellettuale e morale)  il 60% delle specie e il 70 % degli habitat sono a rischio.

In Italia (Bel Paese, ex giardino d’Europa, patria dello stile italiano nel mondo, grande bellezza perduta) un quinto delle specie è a rischio di estinzione: un dato tra gli altri, su di “un campione di 2.807 specie italiane di spugne, coralli, squali, razze e coleotteri, ben 596 sono a rischio di estinzione”.

E noi, che ci possiamo fare? Possiamo. Possiamo fare. Possiamo fare molto. Preservare la biodiversità è possibile in molti, umanissimi, semplici modi.

Il vecchio albero del bisnonno, in giardino? Reclama cura: potatura, concimazione, riproduzione da seme o talea.

La pianta di menta ereditata dalla nonna? Può essere diffusa, da vaso a vaso e fino all’orto.

I fiori del luogo? Meritano di restare in giardino: sono da preferire ai fiori con misure standard provenienti da serre standard e coltivati con pesticidi standard.

il grano? Meglio un campo contenente una varietà prevalente con molti altri semi imprevisti: così da ottenerne un raccolto irregolare, non uniforme, biologicamente resistente, ricco e vario.

A tavola? Recuperare le ricette perdute, i sapori arcaici, le pietanze desuete: basta con la panna sui tortellini, il pesce d’allevamento, le verdure concepite solo quale triste compendio ad arrosti francesi gonfi di ormoni.

Cerchiamo pane ruvido, di quello ancora buono dopo 10 giorni. Lasciamo perdere i panini bianchissimi e immangiabili dopo tre ore.

Piantiamo fiori ovunque vi sia spazio: nutrono insetti impollinatori ridotti alla fame nelle nostre città di cemento asfalto vetro ferro negozi prestigiosi e spot di auto con a bordo suadenti tipi sportivi eleganti gentili mai una volta depressi mai.

Biodiversità è anche emozione, emozioni plurali, pieghe dell’animo, inclinazioni perdute: un buon libraio non può essere soppiantato da un infelice promotore finanziario in giacca e cravatta alle 12.45 di ferragosto (lavora sempre, lui).

Una bella caffetteria è preferibile al coffe shop standard con “brunch” (in italiano, prego: ma è poi colazione o pranzo?) a 7 euro con il primo calice di prosecco (standard) in calici standard dalle 11.15 a. m. in poi.

Biodiversità è vita: non è standard di vita, la vita. Non è mai stata così, la vita, in vita sua.

G. B.

Immagine: dal web

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