Trasformazione 2

Dicembre dell’anno 1992. Sarajevo. Città sotto assedio. In tregua da qualche ora. Perché ci entrammo noi. Pacifisti venuti dall’Italia, dagli Stati Uniti, dall’Altro Mondo ricco e prospero. Dormimmo qualche ora, quella notte. Anche se al freddo, su pavimenti duri, in perfetta e collettiva solitudine.

Dormimmo abbastanza bene, con sogni fitti come veglie brucianti; vigili come animali della notte; agitati e calmi per essere gli uni accanto alle altre nello stesso destino.

Dormimmo, in fondo quieti, nonostante s’udissero, qua e là nel vuoto particellare di una città densa e rannicchiata, latrati di cani tristi e colpi di fucile solo probabili nella posizione dominante: come quantiche particelle di rabbia gettata in cielo da uomini senza più cuore; o col cuore per metà perduto.

Sarajevo. Dicembre dell’anno 1992. In 500. Non tutti giovani, non sempre forti. Ci provammo solo, è vero, ma infine riuscimmo: a portare cose, tregua, medicinali, un paio di ambulanze, un’idea, qualche parola a una città generosa nonostante odio e oblio; credendo di potere fermare la guerra in modo nonviolento. Così, su due piedi, parve una ingenua pazzia. Invece, chissà se è vero che quel giorno spararono meno del solito, quasi per niente. Qualche vita si sarà pure salvata; qualche vita si sarà dannata meno. Chissà.

Al mattino, di nuovo in marcia per le vie della città, vedemmo una bimba. Accanto ad un uomo dritto e dignitoso. Avevamo dei giochi tra le dita, noi. Burattini. Ci scambiammo uno sguardo di intesa, io e lui, e pensammo che, sì, fosse giunto il momento di donarli. A quella bambina, non a un’altra, ci parve ovvio.

Ci avvicinammo, cauti, a lei e all’uomo. Ad ogni nostro passo, lieve e rapido come se dovessimo fare piano e in fretta nello stesso istante, quella bimba ampliò il sorriso: come sorgendo da una serietà portata a lungo, come una luna che s’alzasse rapida dal fondo di un mare incupito.

Burattini, semplici, equi e solidali: li donammo a lei. La lasciammo così, piena di gioia. Non sorrideva soltanto. Era sorriso. Un sorriso composto e tacito come i modi dell’uomo che era al suo fianco: forse il padre, forse il nonno, forse un uomo fatto più maturo dalla tragedia.

E noi fummo felici. Disarmanti nella nostra gradassa spavalderia giovanile, riprendemmo ad andare.

Giunti senza scorta ONU, di notte, su 10 pullman vecchi e ferrosi, quel mattino portammo sui piedi, ingenui, quel po’ di pace ingenua che non avrebbe potuto fare rumore alcuno, se non di passi e voci, giacconi e facce esibite con leggerezza lungo strade vuote e piene.

Ci fu chi ci sopportò a mala pena; ma fu meno solerte di chi ci lanciò baci, fiori dalle finestre e lacrime d’effimero sollievo da quei marciapiedi calcati, finalmente, senza terrore; quasi fossimo dei liberatori venuti a dorso di carri armati verdi.

Noi andammo per Sarajevo a piedi, senza carri e con gli zaini svuotati sulle spalle alleggerite. Con addosso una gran voglia di festeggiare il Natale a casa nostra.

Saremmo tornati a casa, noi. L’avrebbero dovuta ritrovare, una casa, loro.

Fui pacifista, giovane e pieno di speranze. La bambina, oggi, è una donna. Chissà dove. Chissà se col ricordo nostro.

Di noi, che non fummo burattini ma uomini con qualche ragione per credere nell’umanità, ricordo tutto. Mettemmo a prova noi stessi una notte e un giorno di molti anni fa.

Oggi ripeto che si può; quel che si crede possibile si può ancora.

Giovanni Bongo

Fonte: Nasa

Fonte: Nasa