Camminare 18

Non voler procedere. Stazionare. Attendere. Aver male ai piedi. Non sentirsi affatto bene. Non avere voglia. Non volersi alzare dal letto. Percepire la rinuncia. Voler rinunciare. Rannicchiarsi. Sdraiarsi sul lato sinistro, con le mani tra le gambe, e starsene in un cantuccio del letto, coperti, tiepidi, depressi. Non voler proprio andare. Fuori, il cielo è ancora nero. Non volerne sapere. Tutto tace. Tutti tacciono ancora. Il silenzio è garante del segreto dell’insonnia morbida che ti ha destato. Sei stanco, vuoi solo dormire, ma osservi il tuo stesso vegliare sulle possibili ore di sonno ancora a tua disposizione. Poi bisognerà pur levarsi. Levarsi di torno, non solo destarsi. Che voglia di andare. Che voglia di restare. Che voglia di niente. Ecco qualcosa che in pochi ammettono. Che non si è sempre pronti ad andare. Che alle volte non si vuole affatto andare. Che alle volte non si è pronti, forti abbastanza, motivati o solidi. Le prime voci, il rumore sordo di cose raccolte prima che il sole illumini le cose. Passi. Cerniere. Zaini. Non si può rimanere stesi a contemplare la propria tristezza. Con un moto di rabbia ti alzi. Ti prepari. Ti lavi. Sei pronto a farti fare compagnia. Dopo una colazione robusta consumata per lo più tacendo, pensando ai tuoi dilemmi, alle insicurezze di una vita che la vita ha reso solide come rocce, parti. Le insicurezze? Un cammino, un solo cammino, non può spazzarle via. A che serve averlo fatto? Non lo sai. Sai che occorre andare. Procedere. L’imperativo è nella tua stessa azione, priva di scopo apparente, priva di ragioni. È necessario che tu vada. Chi lo dice? Tu. I tuoi primi passi sono meccanici, la tua testa è ancora piena di sogni irrisolti, delle residue percezioni di una veglia stanca e priva di ardore. Poi cominci a provare calore nei muscoli, alla prima salita il freddo umido scompare. Sudi. Dimentico della notte appena trascorsa hai pensiero solo per i pensieri che ti turbano da chissà quanto e e che proprio nel cammino sono diventati totalizzanti. Sei qui per liberarti? Il corpo non fa che mettere in scena quello a cui, sordamente, eri abituato. Camminare, in un simile caso, non è un lieto passaggio tra un pensiero e l’altro, non è meditazione, non è leggerezza. È peso, pesantezza, gravità. È limite. Verrà la meta, non sarà altro che riposo, abbandono delle armi, rifugio, silenzio, sonni profondi. Al momento non lo puoi neppure supporre. Vuoi solo una meta. Cammini per quella meta. Non comprendendo che ogni meta è una deludente combinazione di molteplici casi e scarse necessità. Si sogna solo quel che non si ha il coraggio di prendere. Alle volte ci si accontenta di qualsiasi presa. Avviene perché non si è stati in grado di prendere quel che si è sognato. Cammina. Cammina. Cammina… Giovanni Bongo

Foto di: G. B.

Foto di: G. B.

2 thoughts on “Camminare 18

  1. Ci si stanca. Ci si arrabbia. Arriva un momento in cui anche la rabbia è stanca. Sono stanche le mani, sono stanche le gambe, sono stanchi i pensieri. Uscire, sì. Ma per andare dove? Ciò da cui vuoi allontanarti è proprio ciò che ti seguirà ovunque. Urlare, certo. Ma in faccia a chi? Le care persone che ti ascoltano, no: non sono i loro occhi che vuoi fissare pronunciando tutte quelle parole fino ad ora taciute. Cambiare, può andar bene. Ma cosa, prima di tutto? Lo sai che il problema non è in te, che non sei te. Cambiare posto: inutile. Cambiare ambizioni: impossibile. Cambiare te stesso: inumano. Non ci pensi neanche: perché sei giunto ad amarti di un amore vero, pulito e libero da tutte le possibilità non realizzate. Ti ami perché sei te e non vorresti essere altro, altri per nessun motivo, per nessun guadagno. E quindi, cosa ne facciamo di tutta questa rabbia, questa irrequietezza, questa angosciosa trepidazione che minaccia di far scoppiare la testa? Che sfinisce. Che annebbia la vista, indebolisce l’udito, rallenta l’attività mentale fino a farti ritrovare nel bel mezzo di una strada che non ricordi di aver scelto. Sotto ad un cielo che ti sembra pesante, talmente tanto da avere il riflesso di proteggertene. E con davanti agli occhi un orizzonte che ti attrae ma allo stesso tempo ti impaurisce. Cosa fare, quindi? Concedersi del tempo.
    Arrabbiandosi. Perché la rabbia è prova della nostra esistenza non passiva, delle nostre aspettative deluse, dell’affetto di cui siamo capaci, svenduto e svalutato. Arrabbiati. “La pazienza è la virtù dei morti” , e tu non lo sei. Dimostralo a te stesso di non esserlo. Resta pure lì dove sei, non far nulla fin quando non ti sembrerà giunta l’ora di far qualcosa, non pensare, non ricordare. Come ubriaco. Sì. Ubriaco della tua rabbia, fino a non reggerti in piedi. Fino ad avvertire come insostenibile il peso della penna che non vuol proprio saltar giù dalle tue dita. Arrabbiati e scrivi la tua rabbia. Non perché altri ci parlino sopra, definendone la causa, il valore e l’importanza ma perché tu stesso, tu stessa possa riconoscere tra le parole e tra i graffi della tua rabbia, chi sei e quello che vuoi. Perché tu possa continuare ad essere. Perché tu possa continuare a desiderare. E perché, dalle tue parole, altre e altri possano riscoprire chi sono e cosa desiderano.

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    • Arrabbiarsi. Fare della rabbia un proposito. Farne passi. Farne cammino…
      Forse è quello che inconsciamente ho fatto, marciando.
      Forse è quel che faccio, camminando.
      Forse non è rabbia. Bensì riconoscimento del “non ancora”: il non ancora non è solo una nozione temporale, ma spaziale, esistenziale, ontologica. Magari irrisolvibile, forse necessaria, sostanziale, vitale.
      Grazie.
      G. B.

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