30 maggio

Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti dei «goal». Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità.

Pier Paolo Pasolini

Che il calcio sia bello è vero a partire dal fatto che lo si fa con una sfera. Geometria perfetta. Non si conoscono giochi più belli e immediati. Basta avere un pallone. O, se non si può, basta avere una latta, uno sferoide di stracci, mai del tutto sferico; qualcosa che ricordi quel che non si ha: un simulacro di perfezione, un accenno di possibilità, un richiamo all’accesso ad una gaiezza che non sempre è di tutti.

Ricordo quanta gioia c’era nel donare, nel ricevere, un pallone. Un pallone gonfio, da tirare forte, da tirare a effetto, da sentire cadere e vibrare sull’asfalto, sul terriccio, sulla breccia. Faceva un rumore tutto suo, il pallone rimbalzante. Se poi era di cuoio, allora era da tenere stretto. Era già un trofeo ancor prima di aver vinto qualcosa.

Era da sudarci dietro. Da giocare fino allo sfinimento. Da sedercisi sopra. Da graffiare un po’, a dimostrare le battaglie fatte, senza scorticarlo tuttavia: perché un pallone doveva durare quanto più possibile.

Un pallone era da tenere in grembo. Nel cavo del gomito. Era da prestare, cauti, solo ad amici di comprovata fedeltà. Era da ricevere con le dovute maniere, quasi galanti. Era da sgonfiare un po’ se troppo duro. Era da coccolare. Era da dormirci sopra al mare, con la testa poggiata sopra, in atteggiamento noncurante (e un po’ gradasso), mostrando i muscoli tesi della giovinezza tesa.

Era da inseguire sulla sabbia, mentre le ragazze ferme a guardare forse si distraevano o forse no: perché mai le donne non dovessero amare il calcio, non te lo spiegavi; oppure era solo scena, non dovevano dare a vedere che la partita di pallone piaceva anche a loro?

Il pallone era da gonfiare. Perché un pallone sgonfio non si può tenere, non si può accettare.

Il pallone sgonfio è come un prato secco. È come una tazzina sporca. È come un bicchiere opaco. È come una camicia sgualcita; è come un libro accartocciato. Il pallone deve essere gonfio, per dignità sua e di chi lo possiede. Se giocassimo tutti con dignità, le cose serie sarebbero davvero tali.

Di nuovo, vien facile di dire che il calcio è metafora della vita. La vita è una gran bella partita. Se la giochi pulito. Tanto perderemo tutti, è ovvio. Non tutti, però, avremo giocato bene. E pulito. Soprattutto pulito. Con modestia. Con onore. Con sapienza.

Non tutti saremo ricordati per essere rimasti fermi, lucidi, concentrati. Sul dischetto del calcio di rigore. In una finale calda di una sera di maggio. Vestiti di bianco, come a una festa allegra, come a una festa triste. Seri. Tirando secco. Gonfiando la rete. Credendo alla vittoria. Per pochi secondi. Perdendo per un soffio. Per pochi metri. Perdendo senza meritare sconfitta alcuna. Restando dignitosi. Con il pianto in gola e la testa dritta. Come Capitani.

Bisogna giocare pulito. Passare il pallone di cuoio a chi è meno forte eppure è là, con noi, e se la suda, si batte fino all’ultimo respiro, non cede un centimetro.

Bisogna giocare pulito. A testa alta. In squadra ma, in fondo, da soli. Bisogna giocare pulito, non per il danaro, non per la gloria, non per il successo, non per altro che per la verità. Sì, per quella individuale verità che ognuno porta dentro.

Allora, sì, vinceremo una volta, due, tre; perderemo di più; e sarà molto meglio aver perso che aver vinto sempre – chissà a quale prezzo.

Perdere è vivere, non solo vincere, come in una notte calda, il 30 maggio, con la città in festa, con la città in lacrime, con la città piena e vuota.

Col pallone pulito tra i piedi.

Giovanni Bongo

Foto: dal web

Foto: dal web