Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti dei «goal». Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità.
Pier Paolo Pasolini
Che il calcio sia bello è vero a partire dal fatto che lo si fa con una sfera. Geometria perfetta. Non si conoscono giochi più belli e immediati. Basta avere un pallone. O, se non si può, basta avere una latta, uno sferoide di stracci, mai del tutto sferico; qualcosa che ricordi quel che non si ha: un simulacro di perfezione, un accenno di possibilità, un richiamo all’accesso ad una gaiezza che non sempre è di tutti.
Ricordo quanta gioia c’era nel donare, nel ricevere, un pallone. Un pallone gonfio, da tirare forte, da tirare a effetto, da sentire cadere e vibrare sull’asfalto, sul terriccio, sulla breccia. Faceva un rumore tutto suo, il pallone rimbalzante. Se poi era di cuoio, allora era da tenere stretto. Era già un trofeo ancor prima di aver vinto qualcosa.
Era da sudarci dietro. Da giocare fino allo sfinimento. Da sedercisi sopra. Da graffiare un po’, a dimostrare le battaglie fatte, senza scorticarlo tuttavia: perché un pallone doveva durare quanto più possibile.
Un pallone era da tenere in grembo. Nel cavo del gomito. Era da prestare, cauti, solo ad amici di comprovata fedeltà. Era da ricevere con le dovute maniere, quasi galanti. Era da sgonfiare un po’ se troppo duro. Era da coccolare. Era da dormirci sopra al mare, con la testa poggiata sopra, in atteggiamento noncurante (e un po’ gradasso), mostrando i muscoli tesi della giovinezza tesa.
Era da inseguire sulla sabbia, mentre le ragazze ferme a guardare forse si distraevano o forse no: perché mai le donne non dovessero amare il calcio, non te lo spiegavi; oppure era solo scena, non dovevano dare a vedere che la partita di pallone piaceva anche a loro?
Il pallone era da gonfiare. Perché un pallone sgonfio non si può tenere, non si può accettare.
Il pallone sgonfio è come un prato secco. È come una tazzina sporca. È come un bicchiere opaco. È come una camicia sgualcita; è come un libro accartocciato. Il pallone deve essere gonfio, per dignità sua e di chi lo possiede. Se giocassimo tutti con dignità, le cose serie sarebbero davvero tali.
Di nuovo, vien facile di dire che il calcio è metafora della vita. La vita è una gran bella partita. Se la giochi pulito. Tanto perderemo tutti, è ovvio. Non tutti, però, avremo giocato bene. E pulito. Soprattutto pulito. Con modestia. Con onore. Con sapienza.
Non tutti saremo ricordati per essere rimasti fermi, lucidi, concentrati. Sul dischetto del calcio di rigore. In una finale calda di una sera di maggio. Vestiti di bianco, come a una festa allegra, come a una festa triste. Seri. Tirando secco. Gonfiando la rete. Credendo alla vittoria. Per pochi secondi. Perdendo per un soffio. Per pochi metri. Perdendo senza meritare sconfitta alcuna. Restando dignitosi. Con il pianto in gola e la testa dritta. Come Capitani.
Bisogna giocare pulito. Passare il pallone di cuoio a chi è meno forte eppure è là, con noi, e se la suda, si batte fino all’ultimo respiro, non cede un centimetro.
Bisogna giocare pulito. A testa alta. In squadra ma, in fondo, da soli. Bisogna giocare pulito, non per il danaro, non per la gloria, non per il successo, non per altro che per la verità. Sì, per quella individuale verità che ognuno porta dentro.
Allora, sì, vinceremo una volta, due, tre; perderemo di più; e sarà molto meglio aver perso che aver vinto sempre – chissà a quale prezzo.
Perdere è vivere, non solo vincere, come in una notte calda, il 30 maggio, con la città in festa, con la città in lacrime, con la città piena e vuota.
Col pallone pulito tra i piedi.
Giovanni Bongo
“Perché mai le donne non dovessero amare il calcio, non te lo spiegavi; oppure era solo scena, non dovevano dare a vedere che la partita di pallone piaceva anche a loro?” , ho sorriso leggendo queste parole. Un sorriso involontario, di quelli che smascherano: perché, forse, nella maggior parte dei casi, sì, è solo scena. La realtà è che un pallone che rotolando, arriva vicino al proprio piede, sfiorandolo, attrae l’attenzione, quasi automaticamente, non tanto per il pallone in sé: ma perché dietro ad un pallone che rotola, c’è qualcuno che corre. Che corre dietro al pallone, inseguendolo. Con fretta o con calma, ma c’è. E lo sguardo, a volte snob ed annoiato dal lieve urto del pallone contro la propria caviglia, inevitabilmente, si sposta sul corpo, sul volto di chi lo raggiunge. Ed è in quel momento che avviene il passaggio, impercettibile, dalla scena, da ciò che si vuol far vedere a ciò che realmente si prova, a ciò che si avverte. Ecco che lo sguardo segue quel corpo che s’allontana, fiero e pronto per ricominciare. Per continuare. Per dar seguito a quella partita che bisogna vincere. Perché non è la coppa o la medaglia o chissà quale premio in palio, che bisogna vincere, ma la Partita. Semplicemente. Lo si segue quel corpo, scattante, sicuro di sé, della propria velocità, della propria scaltrezza e ci si chiede se noi saremmo capaci di correre quanto lui, di scattare come lui, di svincolarci dagli avversari nel suo stesso modo. Perché, sì, la furia e la perseveranza attraggono, distraggono da ciò che ci impegnava un attimo prima che il pallone urtasse la caviglia. E intanto, la partita continua. E capita di chiederselo cos’hanno da dimenarsi quei ragazzi, per quale motivo si impegnano in quel modo: è solo un pallone. Già, è solo un pallone. Per chi è fuori dal campo, è solo un pallone. Per chi non gioca, è una perdita di tempo. Per chi non ha davanti a sé la rete della vittoria, è puro esibizionismo. Per chi non vive quello che sta vivendo l’altro, in campo, è sempre, solo qualcosa di non necessario, di non importante. Un pallone che rotola su un prato, invece, ha il suo senso: a concederlo è chi lo insegue, con l’affanno, con una quasi incontenibile adrenalina, con la voglia di pensare, di dire, di urlare di avercela fatta. Un pallone che sfiora il piede sotto al tavolo, porta con sé l’imprevedibilità di un percorso non previsto, nemmeno da chi lo ha lanciato. Un pallone che riprende la sua corsa, è parte di un’opera, di un’impresa, di una scommessa. Portarla a termine, con onore, è lo scopo di chi corteggia il pallone, di chi gli si avvicina per allontanarlo con un calcio, energico quanto può bastare, per poi riprenderlo senza lasciarlo stavolta, senza farselo rubare. Un pallone, per i piedi che lo inseguono e che a momenti lo sfiorano e a momenti lo urtano e ad altri lo scalciano con forza, corrisponde all’oggetto dei loro desideri, alla forma perfetta del loro sogno, al profumo dell’erba bagnata a cui anelano. Perché i piedi lo sanno. Questo, forse, c’è dietro ad un pallone che urta all’improvviso la caviglia. Questo c’è dentro a quella bolla che non scoppia con il colpo, perché dura, forte, resistente: come lo sono i muscoli delle gambe che la rincorrono.
E la partita continua. E la caviglia urtata e distratta non è più sotto al tavolo, accomodata e rilassata: sta correndo anche lei, ora, dietro al pallone. Non per vincere, ma per giocare la Partita. Per imparare il modo più corretto con cui giocarsela, e condurla in maniera dignitosa. Per soddisfare la curiosità di sapere cosa si prova ad inseguire un proprio desiderio, imperterriti davanti all’incomprensione degli altri. Per apprendere l’arte del rischiare, dello scendere in campo, del tentare un goal. Per concedere alla propria voce l’emozione di dire, di urlare “Ci ho provato”. Poiché, comunque andrà, questa Partita, si saprà di aver risposto al richiamo di qualcosa, di qualcuno e di averci provato, di aver rischiato. Questo, forse, è il bello del calcio. Questo, forse, è il bello della vita.
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E un pallone sembra non bastare. Lo si ha troppo poco tra i piedi; specie se chi lo trattiene più a lungo dà (ad ogni costo) l’impressione di saperne di più, di essere più bravo. Allora, viene fuori il carattere. Se chi pensa di poter competere si ritrae intimorito; o se, al contrario, si fa valere e reclama a gran voce il pallone; in quel preciso istante iniziano due destini: quello del giocatore timido, che si ferma perché non riesce proprio a “sgomitare” (meglio, a scalciare); e quello del giocatore capace di imporsi.
Il talento, distribuito in modo casuale dalla Natura e dal Caso, potrebbe brillare in uguale maniera in entrambi giocatori o addirittura più nel primo che nel secondo. Non fosse che al primo giocatore farà difetto la capacità di sentirsi forte: che è, sovente, un risultato iniziale della forza. Credere di essere forti vuole dire, infatti, cominciare ad essere tali…
Grazie.
G. B.
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