Esci sull’uscio. Ed è già sera. Notte, a dar credito al cielo. Stelle lucide brillano come soli remoti eppure stabili, sebbene in moto.
Sono là da tempo, la loro luce è antica, è il nostro tempo remoto che si fa presente: senza tradire l’ansia di volere correggere i nostri errori.
Dire per sempre, per un mortale, è peccare di audacia al cospetto degli astri. Dire “è finita, per sempre”, “me ne vado, per sempre”, “addio, per sempre”; “è finita, per sempre”: davvero? Perché abbia luogo, un sempre deve essere pronunciato da un essere infinito. Perché abbia tempo, un sempre, deve essere pronunciato da un essere immortale.
Noi siamo forse immortali, infiniti? No. Abbiamo già calcato il luogo del nostro abbandono, per dire di volerlo abbandonare. Abbiamo già amato chi diciamo di voler odiare, per dire di volerlo odiare. Abbiamo già avuto amicizia per chi diciamo di voler salutare per sempre, per dire di volerlo salutare.
Che stiamo facendo a noi stessi, tanto da voler violare le leggi del tempo? Non sarebbe meglio trarre da sé il perdono che ognuno merita per essere peccatore, ovvero capace di camminare e, con ciò, di inciampare nei granelli di sabbie dall’apparenza innocente?
Il tempo, questo grande ingannatore, ci rende immodesti – alle volte.
Non ne siamo padroni, ma partecipi. Non lo dominiamo, semmai ci adorniamo dei suoi momentanei vessilli.
Come in un bosco salmastro, pineta odorosa di sali, quel che giunge da lontano è quel che più appare prossimo. Eppure sfuggirà.
Come in un bosco montano, faggeta imperiosa, quel che appare prossimo è quel che presto sfuggirà. Eppure è là, momentaneamente nostro.
Amiamo e diciamoci tutto, anche l’astio. Senza mai una volta dimenticare che siamo noi, a guardar le stelle. Le stelle non ci vedono. Brillano senza sapere quel che noi sappiamo: che la luce svanisce, prima o poi. E prima o poi ritorna. Con noi, e senza, nel tempo. Finché ci siamo, tuttavia, è tempo per noi di non dire sempre o mai; è tempo di dire: è possibile.
Giovanni Bongo