Per sempre, mai!

Esci sull’uscio. Ed è già sera. Notte, a dar credito al cielo. Stelle lucide brillano come soli remoti eppure stabili, sebbene in moto.

Sono là da tempo, la loro luce è antica, è il nostro tempo remoto che si fa presente: senza tradire l’ansia di volere correggere i nostri errori.

Dire per sempre, per un mortale, è peccare di audacia al cospetto degli astri. Dire “è finita, per sempre”, “me ne vado, per sempre”, “addio, per sempre”; “è finita, per sempre”: davvero? Perché abbia luogo, un sempre deve essere pronunciato da un essere infinito. Perché abbia tempo, un sempre, deve essere pronunciato da un essere immortale.

Noi siamo forse immortali, infiniti? No. Abbiamo già calcato il luogo del nostro abbandono, per dire di volerlo abbandonare. Abbiamo già amato chi diciamo di voler odiare, per dire di volerlo odiare. Abbiamo già avuto amicizia per chi diciamo di voler salutare per sempre, per dire di volerlo salutare.

Che stiamo facendo a noi stessi, tanto da voler violare le leggi del tempo? Non sarebbe meglio trarre da sé il perdono che ognuno merita per essere peccatore, ovvero capace di camminare e, con ciò, di inciampare nei granelli di sabbie dall’apparenza innocente?

Il tempo, questo grande ingannatore, ci rende immodesti – alle volte.

Non ne siamo padroni, ma partecipi. Non lo dominiamo, semmai ci adorniamo dei suoi momentanei vessilli.

Come in un bosco salmastro, pineta odorosa di sali, quel che giunge da lontano è quel che più appare prossimo. Eppure sfuggirà.

Come in un bosco montano, faggeta imperiosa, quel che appare prossimo è quel che presto sfuggirà. Eppure è là, momentaneamente nostro.

Amiamo e diciamoci tutto, anche l’astio. Senza mai una volta dimenticare che siamo noi, a guardar le stelle. Le stelle non ci vedono. Brillano senza sapere  quel che noi sappiamo: che la luce svanisce, prima o poi. E prima o poi ritorna. Con noi, e senza, nel tempo. Finché ci siamo, tuttavia, è tempo per noi di non dire sempre mai; è tempo di dire: è possibile.

Giovanni Bongo

cielo-stellato

15 thoughts on “Per sempre, mai!

  1. … ma i nostri “per sempre” e i nostri “mai”, non sono legati al tempo inteso come oggi, domani, tra un mese, un anno e così proseguendo. Sono legati alla nostra volontà, al nostro voler stare bene, al nostro desiderare la serenità che la persona, il luogo, la situazione da cui ci stiamo allontanando per sempre, ci ha tolto. I nostri “mai più”, sono il risultato di prove andate male, di tentativi falliti, di speranze deluse e sono proprio quei “mai più” a rassicurarci: chi (anche noi stessi) o cosa ci ha fatto del male, in qualsiasi modo, attraverso qualunque mezzo, non potrà farlo più. Perché noi lo impediremo, con il nostro “mai più” pronunciato, urlato. E sarà l’orgoglio di quel “mai più” a ricordarci la promessa che ci siamo fatti quel giorno: quella di tutelarci e di fare il possibile per essere sereni. Non è necessario vivere in quel “per sempre” per sapere ciò che non faremo “mai più”: il “per sempre” non possiamo viverlo, è vero, ma abbiamo vissuto l’alternativa e ci è bastata e l’abbiamo esclusa, rifugiandoci in un “mai più” che, sì, pur se illogico, incoraggia. Perché credere che qualcosa non accadrà mai più, come noi desideriamo, rassicura: protegge, in qualche modo, dall’eventualità, dalla possibilità di rivedere occhi, volti che non vogliamo rivedere. O che si ripresentino sensazioni, emozioni che non vogliamo riprovare. E quel sapore amaro, poi, che no, non ci va più di avvertire. Sarà ingenuità, sarà vigliaccheria o presunzione, non so dirlo. Ma so che un “mai più”, pensato e pronunciato dopo aver vissuto il “sempre”, il “giorno dopo giorno” , dopo averli sofferti, libera. Libera dalla paura che possa riaccadere, che si possa risentire bussare alla porta di una nuova giornata, proprio chi abbiamo allontanato dalla nostra vita, quel giorno in cui ci siamo ricreduti su quel “per sempre”, accogliendo l’alternativa. Non prevista, non fisicamente verificabile, ma reale. Già realizzata, per noi. Per noi che, quando abbiamo pronunciato quel “mai più”, quando abbiamo sbattuto la porta o il telefono o la nostra rabbia in faccia a qualcuno, ci abbiamo creduto davvero. E la rabbia, non ha molta fantasia nella scelta delle parole. Non impiega tanta energia e concentrazione: sicura, spedita, cieca e sorda, ne sceglie e ne pronuncia solo una: “mai più”. Non siamo immortali, certo, siamo semplicemente umani. Appunto. Per questo, ci spetta il diritto di scegliere, di credere e di costruire i nostri “per sempre”, così come i nostri “mai più”. Non siamo ovunque, in tutti i luoghi, è vero anche questo. Motivo per cui, ci si deve permettere il lusso si scegliere un posto escludendone altri, perché questi ci hanno fornito la loro buona parte di illusioni e delusioni.
    Oh, sì. Esiste già oggi un “mai più”. Così come esiste già oggi un “per sempre”. E la loro logica, l’uso lucido e consapevole che si fa di questi estremismi, è dato dal nostro volere, dal nostro desiderare che ciò che accadendo ha provocato malessere, non riaccada più. Forse, la mia, è solo autoconvinzione, spudorata convenienza: alle promesse coniugate al “per sempre”, non credo e non mi affido. Ma i “mai più”, sì: quelli mi servono. Come i sonniferi ad un insonne: aiutano a fuggire da quel buio che la scorsa notte ha provocato paura e in più offrono la possibilità di sognare. Di sognare che nel momento in cui abbiamo pronunciato quell’orgoglioso “mai più”, ci credevamo realmente. E tuttora ci crediamo.

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    • Rabbia è il nome del “mai più”; rabbia è il nome del “per sempre”. Ed è rabbia utile, certo, se la si esercita; ma ci pare iniqua, invece, se la si subisce. Eppure, lo riconosco, è necessaria, dal punto di vista di chi la prova e le dà forma.

      Un giorno, tuttavia, potrebbe ferirci. La domanda suonerebbe così: e se avessimo perdonato? Se ci avessero perdonato?

      Grazie.

      G. B.

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  2. La domanda potrebbe suonare in altro modo, perché poi, alla fine, a quella fine che segue la fine, il perdono di cui dobbiamo esser capaci, è quello nei nostri confronti. Perché abbiamo scelto noi, giorno dopo giorno, di amare qualcuno di cui ora si ricordano a stenti i tratti. Amare qualcuno? Amare quel qualcuno é stato come, come dire, come amare una panchina: era lì, sì. Ogni volta, lo si ritrovava lì e l’illusione che fosse lì in nostra attesa ci ha privato dei sensi e del senso. La realtà è che la panchina era lì, indipendentemente da noi. Era lì perché lì voleva stare. Semplicemente. E quella nostra smania di dare un senso a tutto, una risposta ad ogni domanda… a volte, succede di darsi quella sbagliata. Quella più comoda, forse. Quella su cui stasera, lontani da quella panchina, si sorride. Ma di un sorriso freddo. Inespressivo. Perché tutto l’amore, le energie, tutto quel buono, sono stati sacrificati in nome di una vecchia panchina, ora arrugginita. A perdere. Tutto quello di cui eravamo capaci, perso. Questa è la più grande prova di perdono: perdonare se stessi per ciò che si è permesso. Per ciò che si è scelto. Per aver veramente creduto che quell’angolo di mondo, esistesse per noi. E per quel “mai più” che non si è riuscito a pronunciare prima.

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    • Dunque, le domande potrebbero essere: chi davvero amiamo? Perché diciamo di amare? Perché manifestiamo amicizia, salvo poi ritirarci per una inezia – o per un fatto irrilevante all’apparenza? Perché non ammettiamo che non amiamo d’amore, semmai amiamo a nostro modo; pertanto il nostro amore è l’esasperazione di ogni nostro limite?

      Sulla panchina occorre sedersi, alle volte, e pensare, seriamente, a chi siamo e a quel che facciamo per il fatto di essere chi siamo…

      Grazie.

      G. B.

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  3. Non so dire perché amiamo. So dire, però, come lo facciamo. Come lo fa chi ama senza preoccuparsi di cosa avverrà domani, pur sapendo che il domani sarà portatore di buoni motivi per chiedersi chi o cosa ce l’ha fatto fare…
    Credo che l’amore sia un sentimento debole rispetto all’ amicizia: la sua fragilità è negli elementi che lo distinguono dalle altre forme di affetto. E che gli conferiscono l’esclusività in un determinato momento. Ed è proprio quell’esclusività che rende difficile farsene una ragione: del fatto che era solo un’illusione. Che la nostra capacità di attribuire significato a gesti e ad eventi, era ubriaca di probabilità, di speranze… perché quando amiamo, lo speriamo davvero che la vita, nostra e dell’altro, proceda a nostro vantaggio. Quando amiamo, lo speriamo davvero di poter vivere quello desideriamo, anche quando questo appare spudoratamente impossibile. Eppure, il lato oscuro e crudele dell’amore non è in questa pazzia che acceca e priva di ogni facoltà: è nella presa di coscienza che tutto quello che si è detto e fatto e dimostrato e condiviso e desiderato, ha valore solo per noi. Che dall’ altra parte, non hanno capito la forza e la passione del nostro sentimento e, ancora, non stanno comprendendo il nostro senso di vuoto. Una panchina. Come amare una panchina. Come cantava ” io che qui sto morendo e tu che mangi un gelato”. Ciò che fa male è vedere che su quella panchina, qualcuno sta mangiando un gelato. Mentre noi, di quel gelato, ne assorbiamo solo il freddo, senza sapore, senza dolcezza. Senza la voglia di stare a guardare come tutto si stia sciogliendo, come un gelato sotto al sole. Come tutto, quel tutto che non dimenticheremo, è solo futilità che si consuma, scricchiolando, come una cialda che morso dopo morso, non lascia che briciole per terra. Per terra, ai piedi di una panchina.

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    • Non amiamo che noi stessi, il più delle volte; attraverso l’altro, per suo tramite. Amiamo quel che dell’altro fa da specchio alle nostre illusorie prospettive, al nostro calcolo, al narcisismo che tiene legati i nostri legami.
      Amiamo l’altro perché ci compiace, perché è come vorremmo che fosse – e fino a quanto è tale, ci piace.
      Amiamo noi stessi del non amore che riserviamo, crudelmente, a noi stessi. Perché in effetti noi non ci amiamo se non col metro dell’amore che ci fu riservato: amiamo quasi esclusivamente le luci che diedero luce al nostro profilo; tralasciando le ombre – le nostre stesse ombre.
      Forse questo è un punto debole dell’amore. Forse questo è un nostro punto debole. C’è da pensarci…

      Grazie.

      G. B.

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  4. L’unica forma di amore da cui è possibile trarre benefici, è quella nei confronti di se stessi. Perché nessun “Amore” soccorre la “Psiche” nel momento della prova, nel momento della disperazione, nel momento dello sconforto. E nessun Giove fa da anello conciliante tra il sogno di una relazione e la realtà che ne impedisce la realizzazione. Ci si ritrova così. Lontani, nel tempo e nello spazio. Fino a chiederci se è accaduto realmente quello di cui ci accusiamo. Fino a chiederci se, ora, dobbiamo curarci dall’amore o dal rancore. È qualcosa che va oltre la diffidenza e la paura: è la consapevolezza, la presa di coscienza di non essere fatti per l’amore, senza ridere di chi di sé, sostiene il contrario. Una consapevolezza che proviene dall’ aver visto come e quanto l’amore indebolisca e renda tutto possibile. Di una possibilità falsa, inventata, conveniente. E che, una volta eliminata, ci conduce davanti ad uno specchio a cui si chiede se la nostra, non era solo pazzia. Perché, quando intorno tutto scorre, procede, continua come se nulla fosse accaduto ed immobile resta solo chi non sa neanche in quale direzione dirigere i propri passi, sì: il pensiero di essere un po’ pazzi si fa spazio. Ed è l’unico spazio in cui si trova quella risposta tanto cercata. Una ragione, almeno. Che però permette di proseguire. Lontani da quell’idea di amore di cui si scriveva, si leggeva e si cantava. Lontani da ogni probabilità di ritrovarsi davanti ad uno specchio che ci ricordi quanto siamo pazzi. Lontani.
    Di una lontananza fiera, consapevole e protettrice da ogni indebolimento, da ogni folle, insensata possibilità.

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    • L’amor di sé è condizione per poter amare altri, altro. Altrimenti si ama dello stesso non amore di cui ci si è nutriti: ed è deserto di sassi acuminati, freddo e torrida dissipazione. Amarsi, tuttavia, non vuole dire odiarsi fino a credere l’opposto: facendosi beffe del sé con il pretesto della incoscienza in quel che si crede di voler dare a se stesso contro ogni senso del limite. Amare stanca. E non dà pace…
      Grazie.
      G. B.

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  5. La concezione di amore che ho espresso, riguarda quell’amore esclusivo, unico in un determinato momento. Quello che si avverte per una persona, una sola, la quale appare come quella giusta. Giusta per riempire un vuoto che sembra esser stato scavato proprio per lei. Per avere un posto, il posto che nessun altro può avere nella nostra vita, nel nostro tempo, nel nostro spazio. Parlavo di questo amore. Che, sì, stanca. E non dà pace. Soprattutto, quando non resta che una fossa scavata. Vuota. E non ci sono parole e non ci sono pensieri. Parlavo di questo amore. Ne parlavo con la rabbia di chi non avrebbe dovuto cedervi. Perché nella fossa si rischia di cadere, convinti che laggiù, chi si sta cercando, si è solo nascosto. Perché nella fossa, qualche sasso lo si vuol gettare per sentire che rumore produce lo scontro tra la nostra volontà e quella di chi è andato via, ammesso che ci sia mai stato. Perché sopra e dentro quella fossa, non si vuol tornare. Pur sapendo che è lì. E probabilmente, sempre lì sarà.
    Parlavo di questo amore. Solo di questo.

    Grazie….

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    • Sì, ed è a proposito di questo amore che aggiungo: è come sfida. I duellanti, come gli amanti, amandosi e odiandosi in uguale misura non possono (né vogliono) fare a meno l’uno dell’altro. Perché solo nella sfida dell’odio e dell’amore, solo nella ricerca dell’altro quale unica ragione del proprio sentimento, essi hanno ragione di esistere per sé…

      Grazie a te,

      G. B.

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  6. E penso che sarebbe bello, forse, rincontrarsi tra 20 anni, o anche più. Così, per caso, accompagnati l’uno davanti all’ altra da quelle coincidenze di cui la vita si serve per dimostrare la sua fantasia. Urtandoci per sbaglio all’ entrata di una stazione, ritrovandoci vicini davanti allo scaffale di una libreria, o riconoscerlo lì, in un cinema, seduto nella fila parallela alla mia. Mi piacerebbe. Per vedere cosa ha saputo fare il tempo trascorso lontani. Per sentire se lo ha capito, lui, il senso di quel “mai più”. Per guardarlo negli occhi e verificare se sono davvero l’unico punto dell’ universo in cui posso fermarmi, e restare quanto desidero. E per chiedergli, chiedermi, cos’ era. Cosa è stato. Cosa ne é stato. E cosa siamo stati in quella vicinanza e come siamo stati nella lontananza. In un breve “ciao”, gli chiederei se per i 20 e più suoi compleanni ha atteso i miei auguri, se ha terminato la lettura del libro che gli regalai, giungendo alle parole che sottolinai per non farle passare inosservate, se passando da quella strada, il ricordo di quell’ultimo incontro gli è mai tornato in mente. In un solo “ciao” lo odierei ancora, di nuovo. E lo amerei ancora, di nuovo. O forse, farei finta di non vederlo, di non riconoscerlo. Perché, mi direi abbassando la testa e accelerando il passo, il tempo di un “ciao” non basterebbe per dire tutto. O sarebbe troppo e permetterebbe di dire anche il superfluo. Il tempo di un “ciao” non sarebbe capace di raccontare quante lacrime e e quante speranze e quanta rabbia. Quel tempo, dopo tanto tempo, non sarebbe degno di vincere. Mi piacerebbe, forse, rincontrarlo tra 20 anni, ed anche più. Per ritrovare e riprendermi ciò che mi appartiene… e che non sono riuscita a strappargli dalle mani, per paura che mi dimenticasse.

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    • In fondo è così semplice mentire. La vera ragione, la vera ragione, quale è stata? La ragione per smettere di essere prossimi, essere amici, essere confidenti? Il tempo travolge anche i risentimenti più ostinati: li ossifica. Il tempo, come ambra, sì, proprio come ambra, preserva gli istanti: li copre di gialla, trasparente, dura materia di conforto. Sia l’amore, sia l’odio in tal modo restano intatti, come in quel preciso, perduto, istante. Dopo venti anni, dopo venti anni, non si è più gli stessi: ma l’ambra preserva una parte di noi con gli istanti che furono. Il saggio ne ride, sebbene con mestizia, e comprende; l’ostinato no, ritorna al momento come se non gli fosse valso il monito del tempo trascorso. Infine, tutti i distratti semplicemente alzano le spalle: è passato tanto di quel tempo, sembra dicano i loro occhi privi di lampi…

      Ne valeva la pena? Ne valeva la pena?

      Ecco la domanda: ne è valsa la pela?

      Grazie.

      G. B.

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  7. “Spero di guarire di te in pochi giorni. Devo smettere di fumarti, di berti, di pensarti. Ce la posso fare, seguendo i precetti della morale di turno. Mi prescrivo tempo, astinenza, solitudine”, scriveva.

    Se ne è valsa la pena? Di vivere il buono, di soffrire il brutto, di sperare nell’impossibile, di odiare il reale, di perseverare nell’incoscienza? Se ne è valsa la pena? Non so rispondere.
    Guarire da una persona e liberarsi dagli effetti che questa produce su di noi, è impresa non affatto semplice. Non è semplice accettare la sola idea di volersene liberare: perché anche se fa male, anche se la rabbia brucia, anche se amore e patologia diventano una sola cosa… lui c’è. C’era. Un po’ come si soffre quando fa male un dente: persistente, estenuante il dolore diviene parte del nostro esistere e, pur se forte e legittimo appare il desiderio di rimuoverlo, quando ciò accade, la lingua continua a battere lì, dove quel dente ha provocato dolore. Strana, come una sorpresa, l’assenza del dente è quasi mancanza. Perché sì, si avverte la mancanza anche di ciò che ha fatto male. Di ciò che volevamo rimuovere. E, (chi l’avrebbe mai detto?), bisogna fare i conti anche con quel vuoto, anche con quel freddo, anche con quel silenzio. Bisogna fare i conti anche con chi non c’è più: assurdità, pazzia… cosa, altrimenti? Qualcos’altro, forse, può essere: il passato. In un modo o nell’altro, chi amavamo riempiva il passato e l’oggi guarda a ieri con invidia, con amarezza…
    Se ne è valsa la pena? Difficile rispondere.
    So solo che con le febbri si cresce, attraverso i vizi ci si conosce e per mezzo dei malesseri, si impara a prevenirli. A controllarli.
    Un dente che faceva male, sì. Tanto. E che nessun dentista poteva rimuovere se non io stessa, consapevole che quando è solo caos, quando è solo illusione, quando è solo ricordo, quando è solo sogno… non è amore.

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    • Oppure, di converso, amore è anche caos: anagramma di caso, dunque nulla di prevedibile, nulla di certo, nulla di stabile e ragionevole; bensì, inverecondia, follia, desiderio e astuzia, mancanza e possibilità; solo alla fine, geometria dell’essere, equilibrio per ritrovato amor di sé, senza il quale si perde quella libertà che dell’amore è cibo profondo. Sempre per il motivo che, come altrove ho scritto, l’amore senza libertà odia se stesso…

      Grazie.

      G. B.

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