Fanatici della certezza

Aggressivi, assolutisti, visionari. Ecco gli uomini di ogni tempo, di ogni luogo, di ogni terra. Date loro un pur fittizio punto di sostegno e solleveranno la vostra anima dall’obbligo dell’eternità, facendone terra e sangue; oppure, facendo della loro anima la ragione delle nostre elevazioni – quando i visionari sognano buoni sogni coltivano solo il genio, non la violenza – faranno balzare in un istante i comuni destini.

Sognare lune e farne oggetto di approdo: così gli umani si alzano al di sopra delle loro costitutive meschinità. Oppure, in nome di chissà quale dio sanguinario, pura invenzione di menti senza profondità e coraggio, fare a pezzi corpi inermi di altri uomini colpevoli solo di essere diversi: ecce homo.

Vorrei dire a chi semina il terrore che il mio cielo è senza dei, così è la mia terra. Preferisco rimirare le stelle e struggermi col vento che scuote le querce ed evoca amori perduti. Preferisco il silenzio di un monte, l’invisibilità di una siepe, la compagnia di un gatto, le pagine ingiallite di un romanzo senza tempo al vostro fanatismo.

Non pregherò mai con voi né contro di voi: non all’amore, non al danaro né al cielo.

Non ditemi che in nome di Dio si possa, si debba perfino, fare strage di altri uomini e donne infedeli.

Non ditemi, al contrario (voi che credete di credere in un Dio buono) che i fanatici sono eccessivi ma eccezionali; e che le vere religioni non distribuiscono morte.

Io ho infatti paura del contrario, ovvero del fatto che nell’idea stessa di Dio si celi il pericolo della violenza fatta in suo nome. Perché agli uomini non si può dare l’Assoluto senza nel contempo metterli in guardia contro i pericoli dell’assoluto; perché agli uomini non si può far credere che essi possano credere assolutamente, senza mai dubitare di ogni cosa venga loro in mente di dire e di fare.

Ho paura di chi crede assolutamente. Ho invece fiducia in chi semina il dubbio. Il dubbio non è zizzania, ma è pianta che ha fiori innumerevoli, colorati e gentili; è pianta che ha fiori ricchi, frutti forse effimeri ma mai avvelenati.

Coraggiosi, fantasiosi, dubbiosi, così vorrei fossero gli uomini e le donne di domani. Se un domani vi sarà. Prima che tutto si compia, male, senza pietà alcuna, senza altro dubbio che il deserto della certezza.

Giovanni Bongo

Foto: dal web

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Il prezzo del valore perduto

Frutta lasciata a marcire; oppure distrutta con le ruspe, schiacciata, compressa, sotterrata. Cibo mai distribuito, mai raccolto, mai mangiato.

Per tenere alti i prezzi di frutta e verdura, favorendo esportazioni e importazioni in base ad una criminogena “logica di scambio” fondata sul prezzo (sui prezzi), fanno di tutto. Chi? Governi, cartelli dei produttori, consorzi; e i consumatori, spesso male (o per nulla) informati.

Così non è raro che un pomodoro prodotto in Sicilia lasci l’isola per poi tornarvi, dopo un tortuoso giro, a prezzo triplicato nelle confezioni del grosso gruppo cooperativo con sede in Emilia. Ai produttori, pochi centesimi…

Così non sorprende che gli agrumi spagnoli riempiano gli scaffali dei mercati pugliesi; e dire che fino a qualche decennio fa gli agrumi pugliesi partivano per le più lontane destinazioni, buoni come sono pur senza godere della fama degli agrumi siciliani. Non fosse che ai pugliesi costano meno gli agrumi spagnoli di quelli (ottimi) locali…

Il Mercato Globale fa così: impone bulbi (da fiore) olandesi in Liguria, stabilisce quote latte, determina carenze ed eccedenze; producendo quella maledetta ricchezza (fondata sul danaro) che tutti inseguiamo e associandola all’equipollente spreco (con annessa miseria) che tutti, almeno a parole, censuriamo; infine, provocando una tormentosa irrequietezza dei prezzi.

Invece sarebbe possibile fare altrimenti: produrre quel che si è in grado di produrre; stabilire un prezzo equilibrato, che soddisfi chi produce e chi compra in uguale misura; destinare le eccedenze a chi non ha, a chi ha bisogno, agli enti e alle organizzazioni (scuole, ospedali, associazioni benefiche); lavorare per utilizzare le eccedenze in modo da renderle utili per scopi difformi e convergenti: le plastiche vegetali, ad esempio, potrebbero agevolmente essere prodotte con mais e buccia di pomodori eccedenti, senza accrescere coltivazioni specifiche realizzate sottraendo terra ai bisogni alimentari (è quel che avviene oggi, per la produzione dei bio-carburanti).

Questa mia immaginaria equità alimentare, e prima ancora agricola, passa tuttavia per la consapevolezza (in molti di noi assente) del valore effettivo del cibo. Il valore, non mi stanco di ripeterlo, che è altra cosa dal prezzo.

Esempi? Un piumino prodotto in condizioni immonde costa, al termine del “processo produttivo”, circa 25 euro. Se “griffato”, il suo prezzo oscillerà intorno ai 350 euro, ben che vada.

Il prezzo è, pertanto, una categoria menzognera applicata al valore (ipotetico) delle cose.

Un litro di olio extravergine di oliva, a produrlo con rigorosa cura, costa più di quello che il prezzo di certi mercati ammette e richiede. Il consumatore, spesso incline a spendere una cifra pazzesca per un piumino, è però dubbioso quando si tratta di spendere una cifra accettabile (ma non stracciata) per un litro di olio: prende così forma la sospensione del valore.

Il valore è connesso alla reale utilità, al benessere, alla qualità della vita, all’essenzialità degli usi; all’ecologia individuale, ambientale, sociale.

Il valore implode, tuttavia, quando tutto è misurato in termini di prezzo: il che spiega la presenza di cibo spazzatura nelle dispense delle famiglie povere di mezzo mondo, oppure il drammatico scambio tra cibo di qualità e oggetti elettronici di ultima generazione.

Il prezzo di un uomo è il corrispettivo del suo potere di vendita sul mercato delle merci totali. C’è chi acquista cacao, per stoccarlo, quando i prezzi del cacao sono bassi; rivalendosi in presenza di un artificioso rialzo dei prezzi.

C’è chi vende assessori.

C’è chi crede che l’olio di oliva sia meno importante del borsello da esibire nel localino di tendenza; salvo poi consumare un aperitivo mediterraneo condito con poche gocce di quell’olio biologico certificato altrimenti ritenuto meno importante del borsello. Non fosse che l’olio all’ora del brunch ha un prezzo più interessante del valore dell’olio comprato per i pranzi di ogni giorno con la propria famiglia.

Questa è la società dello spettacolo; non è un buono spettacolo.

G. B.

Foto: dal web

Foto: dal web

Come luna d’estate

Il silenzio ci coglie impreparati; è come una falce di luna estiva, come pianeti d’argento e mercurio, come cieli nel nero solstizio d’estate rimirati senza respiro: sono là da sempre e ci sorprendono ogni volta.

Il silenzio – quiete delle lusinghe e delle disonestà, sosta dei propositi, malinconia del riposo – ci sorprende e ci lascia soli con i suoi silenzi: enormi racconti mai detti, che nascondiamo con protervia per apparire forti.

Quanta paura v’è, in noi, del silenzio? Quasi fosse una catastrofe del volere, mentre è sosta dalla presunzione di potere tutto e di aver fatto il possibile; abbiamo solo bisogno di silenzio, di tenerezza, di ascolto; e forse di cominciare di nuovo, da qualche parte.

Tacere è necessario. Ci accade. Senza parole ci sembra di non avere desideri. Invece sono i desideri che, tacendo, denunciano le falsità che abbiamo commesso dichiarandoli per poi tradirli di continuo.

Aver sognato quel che si è desiderato. Non aver fatto quel che si è sognato. Infine, desiderare quel che non si è fatto.

È andata così?

G. B.

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Trasformazione 4

Scivola via tutto, il proposito, il volere, il valore. Tutto scivola via, l’entusiasmo dalle ali effimere (legate con debole cera); il proposito, la volontà.

Scivolano gli anni, le liti – dei cui rimasugli conserviamo, gelosi e un tanto stolti, solo gli effetti senza neppure ricordarne i moventi. Scivolano le effimere passioni.

Scivola il vento. Scivola il silenzio. Scivolano i doni, e i danni. Scivolano i ricordi, gli ardori, la freddezza.

Scivolano le ricchezze. Scivola il potere. Per non dire della gloria dei “primi”, battuta in oro sul margine della resistenza degli “sconfitti”, il cui bronzo scintilla perfino più a lungo dell’alloro dei vincenti.

Scivolano le occasioni, le menzioni, le opportunità. Scivolano i proponimenti vani, le promesse malferme, gli annunci privi di sostanza. Scivola la gloria del mondo, transitando lenta come masse tettoniche perennemente in urto.

Scivolano gli istanti, gli attimi, i frammenti di tempi creduti, follemente, incorruttibili. Scivolano gli abbracci, le lacrime, le mani strette, le mani lasciate, gli occhi fissati o scrutati appena.

Scivola la rabbia, motore dei nostri diuturni tormenti; e scivola il desiderio – quello stesso motivo di azione al quale diamo tutta la nostra potenza.

Scivola la potenza, scivola il potenziale, scivola il talento del giovane ormai indurito nel vecchio.

Scivola anche la saggezza, scivola la meditazione, scivola il senso. Scivolano gli dei, i popoli, i miti e le sapienze.

Tutto scivola, ovvero scorre, ovvero muta, ovvero nasce e muore, ovvero vive, ovvero transita, ovvero si trasforma, ovvero è inafferrabile.

Dunque, oggi tratteniamo un punto: per un istante solo, neppure per quell’istante; ma fingiamo. Fingiamo di potere far qualcosa al tempo, come negli istanti (rapidi e luminosi) di rapimento che ci colgono distratti dalla nostra presunzione, quando siamo seduti in spiaggia, all’ombra di un albero, in poltrona leggendo; quando siamo silenziosi, grati di tutto e di niente, in riva ad un lago; quando sentiamo il suo corpo vulnerabile tra le nostre dita, e con orgoglio commosso sentiamo che è il nostro amore.

Tratteniamo un punto, come fosse un respiro che non si trattiene tanto a lungo da potersi tener dentro per sempre il fiato; tratteniamo il paesaggio, le immagini, il momento: ringraziando per esserne partecipi.

Facciamo una specie di pace con tutto e con tutti. Tutto e tutti vogliono vivere, balbettano, lottano, protestano la loro esistenza, combattono senza sapere di farlo e si dannano l’anima pur di essere ancora presenti, a volte in modo goffo e ineguale, altre volte con più armonia e candore.

Concepiamo pietà, ma senza alterigia, e consideriamo che siamo tutti nella stessa condizione di fragilità costante: siamo vivi, dunque siamo mortali, pertanto siamo vulnerabili.

Tratteniamo un punto e un istante, come fosse respiro. Teniamo negli occhi la spuma del mare, il vento tra le foglie mosse appena, le nubi scosse che corrono, la linea (non sempre lieta) dei palazzi accatastati da mani puerili, il profilo (sempre elegante) delle chiese antiche, edificate per solcare i secoli; tratteniamo quel che ci circonda mentre siamo presenti e, magari, incomprensibilmente lieti e leggeri, come capita d’essere poche volte in un mese o in una vita.

Sorridiamo, tra noi, e tratteniamo il punto e l’istante. Possiamo dirlo senza timore, sì, di essere felici: felici di essere.

Siamo felici d’essere quando il fatto di essere coincide col fatto di sapere che si è, e non serve nulla di diverso a dare la misura del nostro valore: non la gloria, non il potere, non il danaro.

Rendiamo grazie, laici, umani, soltanto terreni. Perché abbiamo compreso, in noi, che tutto scivola e tutto può essere ammirato solo scivolando in esso, trattenendo non la stabilità bensì il fluire degli istanti nei quali decidiamo fluire senza assumere quella sembianza da padroni che ci rende ridicoli proprio mentre pensiamo di essere solenni.

Nulla è nostro. Tutto lo è mentre assistiamo all’accadere. Non possiamo prendere nulla, possiamo però prendervi parte, esserne parte, essere.

Possiamo perché siamo.

Giovanni Bongo

Fonte: Nasa

Fonte: Nasa

Ricchezza a pedali

Un segno inequivocabile di ricchezza, di raggiunto benessere, di piena emancipazione, di potere personale, di prestigio familiare, di importanza sociale, di successo professionale: l’automobile di lusso, il macchinone, il fuoristrada (sperando di non andarci fuori strada), il suv, il mezzo lucido e nero, o rosso, veloce potente rombante, da sfrecciarci lungo strade sempre vuote, libere di mostrare la potenza del potente alla guida del mezzo scintillante. Questa, almeno, è stata (ed è ancora per moltissimi) la mitologia negativa alla quale appellarsi, nell’occidente ricco o in quello povero, “plusvalente” o precario, opulento o impoverito; questa è la miserrima aspirazione, ancor oggi, di tanti italiani medi con sogni piccoli come le rate di macchine comprate per fermarsi davanti al bar o nella piazza dello struscio e degli acquisti e delle belle donne da portare a fare un giro.

Invece no. Come ha recentemente evidenziato una ricerca condotta dall’Università della California, le cose andrebbero riviste. Dove si gira tanto in bici (questo mezzo poverello proprio di studenti senza quattrini e signore nostalgiche) le cose vanno meglio. Non solo per la salute (pedalare fa bene) ma anche per l’economia.

La scoperta (non proprio una novità) è che dove si viaggia tanto in bici, o con i mezzi pubblici, i commerci vanno meglio (le strade, popolate da ciclisti e pedoni, favoriscono le soste nei negozi; le chiacchiere, la socialità, la creatività); di conseguenza, la produttività aumenta (anche a causa della riduzione delle malattie procurate, direttamente o indirettamente, dal traffico veicolare); e il benessere, anche quello materiale, cresce.

In soldoni: incrementando l’uso di biciclette e mezzi pubblici (e riducendo le distante tra luoghi di vita, luoghi di lavoro e luoghi di studio, dunque ripensando anche la struttura urbanistica complessiva delle nostre città) si otterrebbero due semplici effetti combinati: il risparmio di 100.000 miliardi di dollari l’anno nell’intero mondo; la conseguente riduzione di diossido di carbonio mediamente immesso in atmosfera: circa 1.700 milioni di tonnellate l’anno.

Di là da simili calcoli, è impensabile continuare a viaggiare sulla nostra desueta macchina dello sviluppo – quella sulla quale siamo lanciati, rapidi e veloci, verso la catastrofe.

Sui pedali si muove il futuro, è evidente.

G. B.

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Lo sguardo sulle cose

Lo sguardo sulle cose. Labile. Incerto. Capriccioso. Tanto da non vedere che la nostra stessa intemperanza. Osservare una macchina di lusso. Poi una vetrina. Poi, distrattamente, un palazzo. Poi un vaso di gerani. Poi gli occhi di un bambino. Poi le spalle di un giovane vigoroso. Poi le natiche di una passante. Poi le scarpe di una donna ben vestita. Poi la pubblicità sbiadita di un paio di mutande indossate da un uomo senza tempo e dall’aria compromessa: che ci fa uno così, per dodici mesi, su di un cartellone tanto vasto, senza sembrare fuori luogo? Copre il passaggio frequente dei treni in ingresso in città?

Lo sguardo sulle cose. Il corpo ripetuto mille volte, in svariate forme, per vendere qualsiasi oggetto di uso comune, dal più banale al più elaborato. Marciapiedi stretti, larghi, sporchi, malmessi: attento a dove metti i piedi, ti dissero; e tu lo ripeti pedissequamente, come un automa beffardo, a chi ami e solo per non sentirti in colpa per non averlo fatto. Se ti hanno avvertito, dovrai pure avvertire. Il passaparola nasce così, dall’istinto di sopravvivenza: ma è parola senza pensiero, spesso.

Lo sguardo sulle cose, incapace di trattenersi su di un solo  momento: spazio e tempo che si addensano in una misura solo apparentemente solida, il più delle volte elettronica.

Lo sguardo sulle cose. E poi, non avere occhi che per lei, per lui, per un singolo avvento d’esistenza. Perché l’amore ci colse sull’uscio del nostro inavvertito sguardo. Non avere altro sguardo: d’improvviso far coincidere tutta la nostra attenzione con l’unico referente del nostro consapevole colpo d’occhi. Colpo d’occhi, colpo di fulmine, illuminazione. E allora non avere altro sguardo che per lei, per lui, per un singolo avvento d’esistenza, significa avere sguardo anche per le altre, per gli altri, per il mondo. Uno sguardo rapido e consapevole, che riporta all’unico sguardo che ci dia visione.

Perché non avere occhi che per lei, per lui, significa tornare ad avere occhi e vedere il mondo come da una siepe. Sì, cara è questa siepe, che il nostro sguardo esclude dall’ultimo orizzonte; ma che ci fa sentire l’infinito. Ci rende vivi. Ci fa vedere quel che osserviamo; ci fa osservare quel che vediamo.

Perché senza limiti, a quanto pare, non vediamo un bel niente.

Giovanni Bongo

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