Camminare 19

Ad un tratto, quando il passo richiama solo il passo seguente, successivo per necessità e non più per desiderio, accade l’inspiegabile: si smette di percepire il corpo, che pure è cagione di quell’andare inesausto e, parzialmente, meccanico. Si procede senza alcuna consapevolezza di farlo, si lascia il corpo, unica relazione col mondo, e si penetra in una foresta fitta e ricca, totalmente personale: la propria vita.

La si attraversa, la propria vita, col pensiero alle cose che sono state e saranno, con la capacità (lucida e penetrante) di provare ogni emozione già esperita in ogni istante già vissuto: chiarezza spazio-temporale, veggenza quantica, onestà esistenziale.

Si contempla ogni istante, ora si è in classe nella scuola della nostra infanzia, e si rivede tutto, come fantasmi imprevisti alla scoperta della nostra fragilità infantile; ora si è in piazza, a scrutare (sempre dall’esterno, sapienti e impotenti a un tempo) quel che facemmo quel giorno, quando un litigio feroce ci fece perdere un amico; ora si è al centro sportivo, di nuovo bambini, quando ci si gelò il cuore all’annuncio (teoricamente lieto) che avremmo dovuto partecipare ad una competizione…

E ci sovviene tutto, ogni momento, al solo volerlo evocare. E qui sorge, misterioso, il tranello della coscienza: poter ricordare tutto, certo, ma non del tutto e non a piacimento, perché i ricordi sorgono con una loro intrinseca involontarietà, inconsci fino al momento della lucidità improvvisa.

Dunque, dimentichi del corpo, che cammina da sé; totalmente incapaci di distinguere il paesaggio esterno; come in preda a visioni, stati divergenti di coscienza e percezione, ricordiamo tutto, lucidi e attivi, ma non secondo volontà bensì secondo possibilità.

L’inconscio, a volerlo chiamare così, decide quali immagini restituire, quali situazioni rievocare: la nostra volontà è solo un mezzo aereo per scorgere dall’alto tutto il possibile, ma la lente è involontaria, più profonda ancora della superficiale voglia.

Il ricordo ci ricorda, non il contrario, suscitato forse da un odore (che viene da fuori?), da un suono, da un segno. Allora ci è chiaro che il corpo, il paesaggio, tutto il materiale del nostro incedere ormai meccanico, è il perno del nostro viaggio interiore.

Ci ridestiamo, d’un tratto, come da un sonno vigile e da sogni ipnotici. C’è una salita, il nostro tempo torna ad essere il tempo del nostro cammino. Col sapore dei ricordi in bocca, con la sensazione di essere tornati da un viaggio nel tempo (solo nel tempo, perché lo spazio non è mai mutato per i dieci minuti o l’ora del nostro rapimento), torniamo a camminare con la certezza di stare camminando.

Torniamo in noi. Quanti ricordi abbiamo evocato; meglio, quanti ricordi ci hanno interrogato? Di nuovo certi che determinate cose (date per perse) davvero ci occorsero, ora sappiamo cosa ci ferì, quel lontano giorno, e cosa ci diede gioia, quell’altro lontano giorno.

Siamo questo cammino. Diamo un’occhiata all’orario. Ci spiace che tutti i nostri tempi non possano coincidere, adesso. Ci spiace che quanti ci hanno amati, odiati, offesi, elogiati, toccati, baciati, rifiutati, abbracciati non possano essere qui, adesso. Tutti qui, tutto qui, adesso: ad assistere al nostro camminare, a concepire, come noi, chi siamo diventati a forza o per piacere, grazie al bene e al male, con grazia o malizia, per volontà o necessità.

Ecco (si vorrebbe esclamare) chi sono diventato per voi, nonostante voi, in vostra assenza! Ecco l’uomo. Ecce homo.

Così, si vorrebbe dire. Ma si tace. Sarebbe, forse, presuntuoso.

Attorno solo silenzio. Alberi. Armonia. Sembra tutto armonico, concorde, sereno; e ci piace crederlo.

Ora il respiro, i piedi sul sentiero, il ruscello, le fronde tornano a noi. Oppure noi torniamo a noi stessi e al mondo. Con un’idea non nuova né geniale, forse, ma semplice e savia: esiste solo il presente.

Già, comunque sia andata e qualunque sia lo stato del mondo, esiste solo il presente.

Giovanni Bongo

Foto: G. B.

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