Trasformazione 7

Sono meno di me. Ora mi è chiaro. Come l’acqua che scruto dall’alto e che fragorosa scende a valle, fino a perdersi tra le fronde, i salti, le rocce. Non ne vedo l’origine né lo sbocco, questo è il punto. Non vedo nulla di questo possente fiume dalle misure intatte e perfette. Non vedo origine e sbocco. Infatti rimiro solo il tratto di acque alla mia portata: la portata del fiume che vedo è alla mia portata, questa è l’ironia. Dunque (mi dico con logica apparentemente uguale) tutto sarebbe potuto essere alla mia portata, se soltanto mi fossi stimato di più e avessi detto, un giorno lontano, io sono come me. Invece, oggi constato che sono meno di me. Perché avrei potuto avere di più: e non ne faccio una questione di calcolo e quantità, ma di effettività della mia essenza.

Al ciliegio non chiediamo di darci delle noci; saremmo dei folli a pensarlo. Ebbene, a noi stessi chiediamo invece il contrario di quel che siamo. Ecco cosa intendo dire, io, quando affermo che alcuni sono meno di sé stessi e che io sono meno di me. Ho dato altri frutti. Non ho dato, non del tutto, i miei frutti.

A tal punto la constatazione mi obbliga ad altre analisi, che il fiume addolcisce col suo incedere costante, ora rapido ora placido, in questa valle percorsa da un vento secco, caldo, delicato. Non potrei essere più felice. Cammino. Sono con chi amo. Sono dove amo stare. Il cielo è azzurro. Gli alberi sono mossi senza troppa lena da un vento amichevole. Il fiume è limpido – come vorrei che fossero chiare tutte le cose del mondo.

Perfino io, tanto irascibile con me medesimo, mi sento momentaneamente appagato. Non fosse che in me si è insinuata l’idea che sono meno di me. Sono meno di me. Non vorrei essere di più. Vorrei essere tutto mio. Vorrei essere come sono. Come non sono stato. Come ho temuto di essere. Come merito di essere. Come sono. Eppure non sono del tutto – e provo ad essere.

Giovanni Bongo

Afferra, cammina, vivi!

Hai mani. Afferra. Hai piedi. Cammina. Soprattutto hai vita. Sei vita. Vivi. Senza indugi. Senza riserve. Senza paura.

Temi ugualmente? Non puoi cancellare la paura? Allora fa’ che il timore non sia freno. Al contrario, vagli incontro, scrutalo, abbraccialo. Sappi procedere verso l’abisso. Discerni. Guarda. Chiama le cose col nome che hanno.

Cosa può accadere di peggio se non rinunciare per paura del peggio? Ecco, sai di aver rinunciato già troppe volte. Hai rinunciato. Per buone ragioni. Per educazione. Per prudenza. Per senso del limite. Per accortezza.

La verità è che hai rinunciato, quasi invariabilmente, per mancanza di coraggio. Puoi fartene una colpa? Puoi fartene una ragione? Puoi farne a meno?

Hai mani. Hai piedi. Hai vita, sei vita. Afferra, cammina, vivi…

G. B.

Contar le ore

Conti le ore. Le hai contate. Le ore della gioia, le ore del distacco, le ore del ritorno. Conti le ore. E i giorni. Sai che l’ora della partenza si è approssimata fiaccamente, salvo poi precipitarsi sul dorso delle tue congetture, spazzando via ogni altra volontà di sosta e obbligandoti a tornare. Rapida, l’ora del ritorno è come il collo della clessidra al termine dei granelli di rena, quando il tempo sembra accelerare con la forza di un vortice secco.

Se la vita è viaggio, è pur vero che non ci consente alcuna previsione circa la fine, la partenza, la ripartenza nel viaggio. Ecco tutto, la vita è un viaggio di cui non si conosce, con esattezza, l’esito. Il viaggio, al contrario, è un transito di cui ci è noto, grosso modo, il termine: e si torna, di certo, agli stazzi e ai bivacchi e alle proprie utilità, oltre che ai propri difetti, spesso senza volerne sapere di tornare.

Cosa resta di un viaggio? La formazione dei ricordi, i ricordi stessi, l’esperienza fatta; i segni fisici, le impronte morali?

Ogni viaggio degno del nome contiene la vita e la morte in molteplici forme e modi, non come metafora bensì come realtà. In un viaggio si può subire un danno; si può gioire; si può sorridere; ma si è mortali ed esposti, come in ogni altro caso della vita. Eppure mai come nel viaggio pensiamo che nulla potrà mai terminare, ferirci, farci del male. Nel corso di un viaggio, sospesi in un immacolato scenario di benedicente sosta, ci sentiamo immortali per la durata esatta della nostra vacatio, della nostra assenza a noi stessi e ai nostri io abituali. Non solo. Nel viaggio tutti gli affetti tornano a palesare il candore smarrito, tutti gli abbracci sembrano destinati all’eternità. Nessuna fatalità potrebbe mai colpirci in viaggio: questo ci diciamo.

Non fosse che il viaggio in sé è fatale: perché ci dimostra finalmente chi siamo, ci alletta per denudarci, ci racconta per impedirci di occultare; ci dichiara per palesarci; ci rivela. Ci commuove.

Nel viaggio, sensazione di momentanea immortalità dei mortali, ci scopriamo vivi e vegeti, eppure fragili e incostanti: nel perdurante mutare di cose, fatti, volti, paesaggi.

Nel viaggio sappiamo chi siamo, ora, per non essere diventati chi fummo. Viaggiando, specchiandoci negli occhi di un amico che potremmo non rivedere mai più e finalmente abbracciamo, riconosciamo la nullità dei nostri rancori, la vaghezza dei nostri propositi, l’infruttuosità delle nostre piaghe.

Chi sta fermo, troppo a lungo o addirittura stabilmente, non capisce mai a fondo chi è: perché non viaggia; ma è proprio viaggiando che ci si misura con le proprie misure.

Il  viaggio non è mera allegrezza di mezza estate, non è solo divertimento, non è pura festosità distratta. Il viaggio è confronto, attrito, attrazione verso chi accostiamo per una sola volta o per i luoghi in cui potremmo mettere radici e in cui, invece, affondiamo per una sola ora le orme.

Nel viaggio è sempre tempo di andare. Come nella vita. Penso, invero, che sia sempre tempo di andare nel tempo che si è: né prima, né dopo. Prima non esiste e dopo non esiste. Sarebbe burla muoversi solo nel ricordo o nella previsione.

È durante che si viaggia. È durante che si vive. Occorre andare, è l’unica cosa da fare.

Giovanni Bongo

Alle sorgenti

Siamo nella stessa condizione, tutti: alberi, uomini, lupi. Siamo nella stessa condizione e ne siamo partecipi.

Amiamo la libertà, il soffio del vento sul viso, tra le fronde, sul muso. Amiamo abbeverarci alla stessa fonte pura.

Le sorgenti sono sempre pure, sempre. Non è chiaro, poi, se sia il tempo o la distanza percorsa a corrompere le acque del fiume. Non è chiaro se sia il tempo, o la distanza fisica dalla nostra essenza, a farci diversi, meno onesti, semplicemente falsi.

Tornare alle sorgenti. Vorrei poterlo fare, ad ogni istante. Vorrei tornare alle sorgenti e so che non è solo uno spazio a separarmi dalla fonte delle mie origini dimenticate. Dovrei forse attraversare evi, solcare anni, tornare ai primi istanti di quella luce dalla quale ho preso origine; io, come tutti; io, come le querce, come le stelle, come i lupi.

Conta solo l’amore, credo. L’amore che si dona al singolo divenire del singolo istante amato. Di chi amo, amo ogni istante.

Amo ogni suo istante. Alle sorgenti è facile dirlo.

Seguire il corso del fiume è più difficile. Torniamo alle sorgenti. Cerchiamo una sorgente…

G. B.

Come Sisifo?

Sei sfinito, come Sisifo? Sei, come lui, condannato a tentare in eterno per realizzarti attraverso l’infausto tentativo di giungere alla cima; eppure, nei fatti, sei sconfitto dal tuo stesso esistere? Scivoli a pochi passi dal culmine del tuo intraprendere?

Sappi che ti occorre un proposito, uno qualsiasi, al quale ispirare i tuoi gesti. Non ti importerà neppure più di fallire, di non riuscire, di cadere. Conoscerai la vita, come ora la conosci, tanto da sapere che fortuna e sfortuna sono momenti dello stesso istante. L’altra faccia della medaglia è pur sempre medaglia.

Non fare più appello alla sorte; già sorridi di quello che farebbe urlare chiunque altro mentre ti rabbuia quel che ad altri potrebbe apparire normale. Tuttavia fa parte del tuo sguardo la capacità di cogliere quel che nello sguardo non v’è affatto.

Diceva bene Wilde: “il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile”.

Osserva il visibile, ora, e non per scorgervi reconditi segreti ma per scorgervi l’intima verità.

Ti occorre un proposito? Potrebbe essere la verità! La verità non ti è nuova ma è senza dubbio un buon lavoro da compiere.

Dire la verità potrebbe fornirti l’utile soluzione. Non fosse che a te neppure è chiaro cosa sia una soluzione: forse scioglimento, dissolvimento, stabilità, quiete? Oppure nuovo inizio, fine del passato, serenità?

A pensarci neppure una soluzione è davvero decisiva. Spesso giunge a cose fatte, come un desiderio imprevisto.

Il desiderio, che per tanti è quel che precede la soddisfazione di un impulso, spesso giunge a premio raggiunto. Si tratta di un inganno, tuttavia, perché si finisce col pensare di aver desiderato quel che non è neppure dipeso da noi.

È un’esperienza comune comprendere, a un tratto, di aver spesso voluto senza ottenere alcuna conseguenza. Al contrario, capita invece di avere conseguito senza aver impiegato alcuna volontà: insomma, di avere goduto di un premio senza aver desiderato affatto quel premio. In tali casi il desiderio è grasso in un piatto senza sostanza.

Toglie equilibrio avvertire la debolezza dei propri propositi o la vaghezza delle proprie mete. V’è invece una cura dell’essere che consiste proprio in questo: agire, dire il vero, semplificare le attese, concepire quotidiani e semplici guadagni (o scopi), capire che la fortuna è una sola e non gioca ai dadi; la fortuna è l’esserci, il poter dire, il poter fare, il potere provare la fatica di un ignoto Sisifo senza più maledirla bensì confermandone l’assunto: occorre un proposito, salire, scivolare, ritentare.

Esiste chi, pur sconfitto per un verso, per altri versi continua ad esistere, finché sarà possibile, con uguale tenacia.

Non dovrebbe assillarci il futuro. Il futuro è un presente camuffato da prospettiva. Solo nel presente, tuttavia, è possibile la parola odierna, è possibile distinguere fortune e sfortune, è possibile svelare ogni inganno; è possibile dire che l’altra faccia di una moneta è pur sempre moneta.

Dire il vero è un buon proposito. Ne occorre sempre uno per tentare una salita.

G. B.

 

Mentre cammino

Io sono un agricoltore. E poiché sono un agricoltore vivo in campagna. Sono quel genere di agricoltore che dopo aver indugiato sui libri per soddisfare la ricerca della saggezza economica ritorna alla terra, che è la sorgente e il fondamento di ogni economia (…) Io credo che il terreno sia l’unico bene indistruttibile (…)  Jack London

Mentre cammino mi viene in mente che il denaro è la natura degenerata delle cose. Lo ripeto a me stesso: il denaro è la degenerazione della materia.

La materia, nel suo stato primordiale, non ha alcuno scopo oltre se stessa – nel qual caso risponde ad una sorta di richiamo primario. È il richiamo al compimento di uno scopo più nobile e più alto, è il richiamo della vita.

Non che condivida la fede in un qualche Dio, essendo un materialista seppur pieno di spirito, ma trovo infinitamente più sensata la ricerca dell’Assoluto tipica di questi luoghi e di chi da sempre li popola: terre nelle quali, secoli addietro, eremiti coraggiosi (tra di essi un Papa noto col nome di Celestino V) cercarono incessantemente Dio tra le mille voci dei boschi e delle forre e dei fiumi e degli animali selvaggi. Trovo infinitamente più sensata la ricerca apparentemente ingenua di un Dio nella cui bontà confidare alla raffinata, per alcuni “scientifica”, ricerca della sapienza economica. Una simile “sapienza” sta uccidendo il mondo.

Cammino, felice e primitivo nei miei bisogni, esattamente come potrebbe fare un vecchio pellegrino o un eremita, in tutto simile ad un allegro vagabondo senza dimora e senza bisaccia.

Il sentiero è bianco come latte, solca come una vena carica di vigorosa linfa terre del color del rame bruciate da un sole dimentico di ogni altra occupazione se non di quella per cui esiste da sempre: ardere atomi di energia fino al naturale esaurimento della sua spinta essenziale e indomabile.

Il rumore dei miei passi è confortante: sbrecciano il suolo e producono un suono costante, secco, lieto. Al bambino che fui piaceva il rumore dei sassi, significava gioco libero, festa, vacanza. Non si hanno mai abbastanza feste, giochi e vacanze – nella vita. Prevale, in ogni vita, quel senso della responsabilità che, tradotto in lingua chiara, significa, per molti tra noi, disperata ricerca del benessere – fatta a scapito del benessere. Si tratta del ridicolo esercizio di chi, per godere un’ora, fa lo schiavo per un secolo.

Penso che il rumore dei piedi sull’asfalto delle città ha un ben altro risvolto: non è un rumore semplice e giocoso; non è quasi un rumore. È un brusio ansioso.

Il denaro mi tormenta: l’affanno col quale ci danniamo la vita per accumularne in vista di mete sempre deludenti rispetto alle iniziali attese è, francamente, incoerente. Perché ci preoccupa così tanto, fino ad avvelenare i nostri amori, fino a farci perdere la nostra anima?

Lavoriamo sodo; oppure frodiamo gli altri; oppure li derubiamo; oppure diventiamo avari fino al limite dello struggimento; in nome di cosa?

La Natura risponde con chiarezza. Le macchie di rovo portano frutti densi e neri, quasi senza succhi ma dolci nel fondo di una nota aspra. Nel fitto delle faggete, sui fianchi di sentieri soffici come vecchie foglie color d’oro, fragole piccole e rosse, dolci ed effimere, addolciscono il palato senza riempire mai la bocca: la sobrietà è il sapore della vera ricchezza.

In modo simile, lamponi soffici e rossi, d’un colore meno esigente del sangue, ristorano le fibre muscolari dei viandanti; sono frutti ricchi di sostanze antiossidanti (così si dice) la cui salubrità era nota prima che qualcuno la certificasse. E poi, l’acqua, presente ovunque, discreta o fragorosa, dona pace ai lati assolati di questo magnifico massiccio montuoso e dona quiete alle gole di chi, sudando e smaniando, arriva alle sue mete provvisorie dopo ore di estenuante cammino.

Non v’è risparmio, in Natura, perché non v’è mai spreco. Quel che si accumula, del tutto spontaneamente, non costituirà credito, bensì riserva: per le lotte che seguiranno, per gli autunni che verranno, per gli inverni che raggeleranno terre e boschi.

L’economia naturale non è una gabbia per i cuori di chi vive; è uno slancio verso la vita che è già, vita destinata a trasformarsi attraverso il passaggio, immodificabile e inspiegabile, della morte e della decostruzione dei corpi.

Il denaro, qui, è del tutto irrilevante. Non compra quel che si dona, non stabilizza il prezzo che non c’è mai stato e mai ci sarà.

Me lo chiedo senza enfasi, anzi lo affermo: bisognerà pur uscire dal dominio del denaro! Bisognerà pur ritrovare la misura, tornando a vivere, silenziosi come fuggiaschi stanchi, tra le valli e i monti; abbandonando le città odierne, non più culle di studi e commerci e progressi, ma prigioni di spiriti stanchi e agguerriti dal veleno di una faticosa ricerca di ricchezze ormai inutili.

Dobbiamo ritrovare la gioia di esistere per non piegarci alla fatica di sopravvivere nel silenzio delle nostre ragioni più profonde, nel silenzio delle nostre passioni svendute.

Che mondo abbiamo fatto? Che vita stiamo facendo? A cosa non possiamo rinunciare, ora, tanto da sentire il bisogno di lamentarci ad ogni passo per quel che manca ma in realtà ci appesantisce?

Penso ai discorsi di chi incontro e di chi ascolto ogni giorno. Penso agli individui seduti ai tavoli di robuste mangiate, penso agli uomini e alle donne fermi sulla soglia di racconti mai portati a termine – racconti sottaciuti per paura della verità e per timore del rifiuto che, spesso, accompagna la verità detta con innocenza. C’è posto per l’innocenza, dove tutto è in vendita?

Ebbene, i discorsi dei miei simili hanno quasi sempre lo stesso sfondo: il denaro. Li sento parlare di denaro, di possessi, di preoccupazioni legate non alla vita che verrà ma agli averi che sfioriscono; di rado li sento parlare di vita; ancor meno frequente è il loro silenzio.

Il silenzio è d’oro, quando si parla per non dire nulla. Il silenzio è di chi, vivendo di vita schietta, preferisce tacere, di quando in quando, per cogliere la voce che tutto dice: per ascoltare la voce del vento sui monti, delle brezze tra le foglie, della vita che vive senza il permesso di qualche triste re di denari.

Cammino su di un sentiero color latte. Felice. Sorridente per lo sconforto di sapere che un giorno non solcherò più tali meraviglie. Un giorno non ci sarò più, ma potrò pur dire (in qualche maniera) di esserci stato. E questo mi rallegra.

La vita è così. La vita è questa. Non ha prezzo. Si vive.

Giovanni Bongo