Io sono un agricoltore. E poiché sono un agricoltore vivo in campagna. Sono quel genere di agricoltore che dopo aver indugiato sui libri per soddisfare la ricerca della saggezza economica ritorna alla terra, che è la sorgente e il fondamento di ogni economia (…) Io credo che il terreno sia l’unico bene indistruttibile (…) Jack London
Mentre cammino mi viene in mente che il denaro è la natura degenerata delle cose. Lo ripeto a me stesso: il denaro è la degenerazione della materia.
La materia, nel suo stato primordiale, non ha alcuno scopo oltre se stessa – nel qual caso risponde ad una sorta di richiamo primario. È il richiamo al compimento di uno scopo più nobile e più alto, è il richiamo della vita.
Non che condivida la fede in un qualche Dio, essendo un materialista seppur pieno di spirito, ma trovo infinitamente più sensata la ricerca dell’Assoluto tipica di questi luoghi e di chi da sempre li popola: terre nelle quali, secoli addietro, eremiti coraggiosi (tra di essi un Papa noto col nome di Celestino V) cercarono incessantemente Dio tra le mille voci dei boschi e delle forre e dei fiumi e degli animali selvaggi. Trovo infinitamente più sensata la ricerca apparentemente ingenua di un Dio nella cui bontà confidare alla raffinata, per alcuni “scientifica”, ricerca della sapienza economica. Una simile “sapienza” sta uccidendo il mondo.
Cammino, felice e primitivo nei miei bisogni, esattamente come potrebbe fare un vecchio pellegrino o un eremita, in tutto simile ad un allegro vagabondo senza dimora e senza bisaccia.
Il sentiero è bianco come latte, solca come una vena carica di vigorosa linfa terre del color del rame bruciate da un sole dimentico di ogni altra occupazione se non di quella per cui esiste da sempre: ardere atomi di energia fino al naturale esaurimento della sua spinta essenziale e indomabile.
Il rumore dei miei passi è confortante: sbrecciano il suolo e producono un suono costante, secco, lieto. Al bambino che fui piaceva il rumore dei sassi, significava gioco libero, festa, vacanza. Non si hanno mai abbastanza feste, giochi e vacanze – nella vita. Prevale, in ogni vita, quel senso della responsabilità che, tradotto in lingua chiara, significa, per molti tra noi, disperata ricerca del benessere – fatta a scapito del benessere. Si tratta del ridicolo esercizio di chi, per godere un’ora, fa lo schiavo per un secolo.
Penso che il rumore dei piedi sull’asfalto delle città ha un ben altro risvolto: non è un rumore semplice e giocoso; non è quasi un rumore. È un brusio ansioso.
Il denaro mi tormenta: l’affanno col quale ci danniamo la vita per accumularne in vista di mete sempre deludenti rispetto alle iniziali attese è, francamente, incoerente. Perché ci preoccupa così tanto, fino ad avvelenare i nostri amori, fino a farci perdere la nostra anima?
Lavoriamo sodo; oppure frodiamo gli altri; oppure li derubiamo; oppure diventiamo avari fino al limite dello struggimento; in nome di cosa?
La Natura risponde con chiarezza. Le macchie di rovo portano frutti densi e neri, quasi senza succhi ma dolci nel fondo di una nota aspra. Nel fitto delle faggete, sui fianchi di sentieri soffici come vecchie foglie color d’oro, fragole piccole e rosse, dolci ed effimere, addolciscono il palato senza riempire mai la bocca: la sobrietà è il sapore della vera ricchezza.
In modo simile, lamponi soffici e rossi, d’un colore meno esigente del sangue, ristorano le fibre muscolari dei viandanti; sono frutti ricchi di sostanze antiossidanti (così si dice) la cui salubrità era nota prima che qualcuno la certificasse. E poi, l’acqua, presente ovunque, discreta o fragorosa, dona pace ai lati assolati di questo magnifico massiccio montuoso e dona quiete alle gole di chi, sudando e smaniando, arriva alle sue mete provvisorie dopo ore di estenuante cammino.
Non v’è risparmio, in Natura, perché non v’è mai spreco. Quel che si accumula, del tutto spontaneamente, non costituirà credito, bensì riserva: per le lotte che seguiranno, per gli autunni che verranno, per gli inverni che raggeleranno terre e boschi.
L’economia naturale non è una gabbia per i cuori di chi vive; è uno slancio verso la vita che è già, vita destinata a trasformarsi attraverso il passaggio, immodificabile e inspiegabile, della morte e della decostruzione dei corpi.
Il denaro, qui, è del tutto irrilevante. Non compra quel che si dona, non stabilizza il prezzo che non c’è mai stato e mai ci sarà.
Me lo chiedo senza enfasi, anzi lo affermo: bisognerà pur uscire dal dominio del denaro! Bisognerà pur ritrovare la misura, tornando a vivere, silenziosi come fuggiaschi stanchi, tra le valli e i monti; abbandonando le città odierne, non più culle di studi e commerci e progressi, ma prigioni di spiriti stanchi e agguerriti dal veleno di una faticosa ricerca di ricchezze ormai inutili.
Dobbiamo ritrovare la gioia di esistere per non piegarci alla fatica di sopravvivere nel silenzio delle nostre ragioni più profonde, nel silenzio delle nostre passioni svendute.
Che mondo abbiamo fatto? Che vita stiamo facendo? A cosa non possiamo rinunciare, ora, tanto da sentire il bisogno di lamentarci ad ogni passo per quel che manca ma in realtà ci appesantisce?
Penso ai discorsi di chi incontro e di chi ascolto ogni giorno. Penso agli individui seduti ai tavoli di robuste mangiate, penso agli uomini e alle donne fermi sulla soglia di racconti mai portati a termine – racconti sottaciuti per paura della verità e per timore del rifiuto che, spesso, accompagna la verità detta con innocenza. C’è posto per l’innocenza, dove tutto è in vendita?
Ebbene, i discorsi dei miei simili hanno quasi sempre lo stesso sfondo: il denaro. Li sento parlare di denaro, di possessi, di preoccupazioni legate non alla vita che verrà ma agli averi che sfioriscono; di rado li sento parlare di vita; ancor meno frequente è il loro silenzio.
Il silenzio è d’oro, quando si parla per non dire nulla. Il silenzio è di chi, vivendo di vita schietta, preferisce tacere, di quando in quando, per cogliere la voce che tutto dice: per ascoltare la voce del vento sui monti, delle brezze tra le foglie, della vita che vive senza il permesso di qualche triste re di denari.
Cammino su di un sentiero color latte. Felice. Sorridente per lo sconforto di sapere che un giorno non solcherò più tali meraviglie. Un giorno non ci sarò più, ma potrò pur dire (in qualche maniera) di esserci stato. E questo mi rallegra.
La vita è così. La vita è questa. Non ha prezzo. Si vive.
Giovanni Bongo
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