Conti le ore. Le hai contate. Le ore della gioia, le ore del distacco, le ore del ritorno. Conti le ore. E i giorni. Sai che l’ora della partenza si è approssimata fiaccamente, salvo poi precipitarsi sul dorso delle tue congetture, spazzando via ogni altra volontà di sosta e obbligandoti a tornare. Rapida, l’ora del ritorno è come il collo della clessidra al termine dei granelli di rena, quando il tempo sembra accelerare con la forza di un vortice secco.
Se la vita è viaggio, è pur vero che non ci consente alcuna previsione circa la fine, la partenza, la ripartenza nel viaggio. Ecco tutto, la vita è un viaggio di cui non si conosce, con esattezza, l’esito. Il viaggio, al contrario, è un transito di cui ci è noto, grosso modo, il termine: e si torna, di certo, agli stazzi e ai bivacchi e alle proprie utilità, oltre che ai propri difetti, spesso senza volerne sapere di tornare.
Cosa resta di un viaggio? La formazione dei ricordi, i ricordi stessi, l’esperienza fatta; i segni fisici, le impronte morali?
Ogni viaggio degno del nome contiene la vita e la morte in molteplici forme e modi, non come metafora bensì come realtà. In un viaggio si può subire un danno; si può gioire; si può sorridere; ma si è mortali ed esposti, come in ogni altro caso della vita. Eppure mai come nel viaggio pensiamo che nulla potrà mai terminare, ferirci, farci del male. Nel corso di un viaggio, sospesi in un immacolato scenario di benedicente sosta, ci sentiamo immortali per la durata esatta della nostra vacatio, della nostra assenza a noi stessi e ai nostri io abituali. Non solo. Nel viaggio tutti gli affetti tornano a palesare il candore smarrito, tutti gli abbracci sembrano destinati all’eternità. Nessuna fatalità potrebbe mai colpirci in viaggio: questo ci diciamo.
Non fosse che il viaggio in sé è fatale: perché ci dimostra finalmente chi siamo, ci alletta per denudarci, ci racconta per impedirci di occultare; ci dichiara per palesarci; ci rivela. Ci commuove.
Nel viaggio, sensazione di momentanea immortalità dei mortali, ci scopriamo vivi e vegeti, eppure fragili e incostanti: nel perdurante mutare di cose, fatti, volti, paesaggi.
Nel viaggio sappiamo chi siamo, ora, per non essere diventati chi fummo. Viaggiando, specchiandoci negli occhi di un amico che potremmo non rivedere mai più e finalmente abbracciamo, riconosciamo la nullità dei nostri rancori, la vaghezza dei nostri propositi, l’infruttuosità delle nostre piaghe.
Chi sta fermo, troppo a lungo o addirittura stabilmente, non capisce mai a fondo chi è: perché non viaggia; ma è proprio viaggiando che ci si misura con le proprie misure.
Il viaggio non è mera allegrezza di mezza estate, non è solo divertimento, non è pura festosità distratta. Il viaggio è confronto, attrito, attrazione verso chi accostiamo per una sola volta o per i luoghi in cui potremmo mettere radici e in cui, invece, affondiamo per una sola ora le orme.
Nel viaggio è sempre tempo di andare. Come nella vita. Penso, invero, che sia sempre tempo di andare nel tempo che si è: né prima, né dopo. Prima non esiste e dopo non esiste. Sarebbe burla muoversi solo nel ricordo o nella previsione.
È durante che si viaggia. È durante che si vive. Occorre andare, è l’unica cosa da fare.
Giovanni Bongo
Chi parte, lo sa. Sa che tutto possiede un doppio significato. Sa che mentre organizza il contenuto della valigia al suo interno, sta scaraventando in aria dell’ altro. Sa che mentre riprende tra le mani il suo biglietto di viaggio, una parte delle sue dita, silenziosamente, cerca già quello del ritorno. O quello di un altro viaggio. Sa che nel momento in cui chiude la porta di casa dietro sé ed urla ‘tutto al diavolo’, in realtà un patto col diavolo vorrebbe stringerlo lui stesso, lei stessa. Per vedere cosa c’è nei vagoni dei treni che non partono più, per sentire il freddo del mare se ci si butta dalla nave nella notte, per sedersi al posto del pilota e decidere la rotta di un aereo annoiato. Chi parte lo sa. Che parte anche quando é fermo. Che decide cosa è veramente essenziale, anche quando non ci sono valigie da preparare. Che ogni posto é quello giusto, purché sia un buon punto da cui vedere le stelle. Chi parte lo sa. Che va a riprendere qualcosa di suo, anche se la destinazione è del tutto nuova. Lo sa che ogni angolo può essere uno strategico nascondiglio e che ogni scoglio, ogni spiaggia, ogni montagna, ogni albero può essere il posto giusto in cui cercare, trovare o ritrovare quella parte di sé che si è persa o dimenticata. Chi parte lo sa che è tutta adrenalina, tutta euforia, tutta nostalgia. Che non sarà l’ultimo viaggio, chi viaggia lo sa. Che se ne concederà o imporrà altri, sì, lo sa. Perché nella valigia resta sempre un po’di spazio vuoto. Da riempire.
Perché la destinazione indicata sul biglietto ne nasconde sempre un altra sotto. Perché ogni strada, ogni mare, ogni cielo sono sempre delle forti tentazioni. Perché ogni viaggio poteva andar meglio, poteva andar peggio. Perché ogni ritorno racconta di bellezze nuove e di malinconie antiche. Chi parte lo sa, lo sa che non arriva mai. Sa che il viaggio possiede un doppio significato fino alla fine. E quando i motori si spengono, quando i suoi piedi ritoccano terra,quando quel profumo di casa lo accoglie, sa che non avrebbe voluto che accadesse. E sa che durerà per poco. E la valigia resta aperta. Nell’ angolo di una stanza troppo piccola per pensare di viverci a lungo. Troppo conosciuta per credere di potersi deliziare ancora. Troppo buia per cercare parole nuove.
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Nel viaggio emerge un io; si costituisce nel corso delle cose; emerge, come antico profilo, dalle profonde spinte dell’essere. Il viaggio è, essenzialmente, una ricerca della verità camuffata da ricerca del piacere, dello svago, della conoscenza.
Conta invece questa prospettiva materica primaria: l’io che cerca io, divenendo se stesso…
Questo implica il dolore del ritorno: la nostalgia, ovvero il dolore per il ritorno che non si vuole, che si vuole, che non si vuole…
Grazie.
G. B.
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