Quello che hai!

Godi di quel che hai. Non pensare ai trenta danari. Godi del tuo respiro, del corpo caldo che respira al tuo fianco, della tenerezza di chi hai generato, non creato, della stessa sostanza del Cosmo.

Godi di quel che hai. Non pensare ai trenta danari. Profumati il capo, non sporco; lavati; sorridi. È un duro esercizio di presenza.

Godi di quel che hai. E se hai fatto sperpero del tuo tempo migliore non hai speranza di poter riavere il tempo sperperato. Ora hai solo il presente. E sei davvero vasto, contieni moltitudini. E sei davvero vivo, sebbene tu non abbia gloria.

Godi di quello che hai; e se ti par poco, sappi che sei vivo. Hai un corpo. Sei integro? Ancor meglio – godi di quello che hai.

Non avere ambizioni stolide; non inseguire la fama; non cercare di far progressi in carriera. Potresti lasciare la via vecchia per una via per nulla nuova: potrebbe essere una sciagura.

Se davvero vuoi evolvere, ebbene guardati dentro; vai nelle più oscure profondità di te stesso e raccogli la memoria che fingi di non avere. Chi volevi essere? Cosa avresti voluto fare? Non sei più in tempo? Hai una nuova prospettiva?
Non sgomitare per i tuoi trenta denari: è semplicemente ridicolo! Potresti non udire quella voce sottile tra gli alberi d’autunno. Potresti non capire il bisogno di tuo figlio – che chiede di te e con te vuol giocare. Goditi quello che hai. Sei vivo? Vivi!

Hai mandato il curriculum, parteciperai al nuovo concorso, hai fatto per bene ogni cosa, il master lo hai conseguito, hai promosso il tuo libro, sei sicuro di aver letto per bene il bando, non vuoi provare a fare carriera?
Laureato, brillante, scrivi bene, parli bene, conosci una lingua in più degli altri partecipanti, hai passioni che vanno dal mare ai monti passando dai fornelli. I mediocri raccomandati ti sopravanzano?
Che disfatta, che disdetta, che disgrazia: non può andare avanti in questo modo, proprio no.

I cervelli fuggono, i piedi li seguono, le mani non stanno nelle tasche, l’Italia affonda, tu annaspi, qualche ladro galleggia, qualche altro vaneggia, i cervelli non tornano, tu fai il contadino per arrotondare oppure, di quando in quando, proprio per quadrare.

Goditi quello che hai, te lo dice la notte in cui vegli invece di dormire. Sei vivo, hai il corpo caldo di chi ami al tuo fianco, i tuoi amici non ti hanno più compreso ma tu ugualmente gli vuoi bene. Goditi quello che hai, chi hai generato ti ama e cresce, chi hai accarezzato vuole altre carezze, alcuni non sono più con te e li piangi, altri non sono più con te e a stento li ricordi.

Goditi quello che hai, non pensare al domani, fai come i gigli dei campi, gli uccelli del cielo, le volpi dei boschi.

Goditi quello che hai, non pensare ai trenta denari. Non pensare all’unguento dei piedi, non pensare alla bisaccia o ai sandali, non pensare alla macchina nuova, non pensare a chi ti ignora, non pensare a chi non capisce, non pensare a chi ti tradisce.

Tu, per primo, hai tradito te stesso ogni volta che non hai compreso che il tempo è uno, tu sei molteplice, una è la vita, varia è la sorte.

Goditi quello che hai. Sei vivo. Sei vivo perché lo puoi dire.

Giovanni Bongo

Camminare 21

La cosa più pesante è diventare leggeri. Fare a meno. Trovare l’essenziale, come a dire: nulla di troppo.

La cosa pesante è farsi leggeri, portare l’essenziale dopo averlo trovato tra le cose che reputavamo inessenziali.

Cosa ci occorre? Cosa è di troppo? Cosa è superfluo? Cosa conta?

Camminare leggeri è un impegno che richiede esperienza; in primo luogo, esperienza di sé: significa conoscersi, conoscere i propri limiti, osservarne (senza alcuna acredine) i profili. Soprattutto, camminare leggeri è dare peso alla leggerezza.

La leggerezza, non deve sorprendere, ha un peso; ha un peso specifico. Ha il peso della pomice nell’acqua. La pomice, una pietra sorprendente, magica, porosa; capace di galleggiare. Una pietra senza peso apparente.

Il peso specifico dà specificità al peso tal quale; diventa essenziale, di nuovo, chiedersi quale peso specifico si abbia per poi valutare il peso complessivo del proprio gravame; e quindi diventa essenziale fare a meno del proprio peso superfluo.

Come fare a dare peso alla leggerezza, ecco una domanda da farsi – camminando.

La cosa pesante è farsi leggeri e poi procedere con passo alleggerito.

Svuotare lo zaino potrebbe non bastare. Portare quel che conta potrebbe non bastare. Svuotare, liberarsi, alleggerirsi potrebbe non bastare. Non basta una vita, alle volte, a trovare il proprio peso specifico.

Va detto che la leggerezza è un sinonimo della presenza. La presenza è misura del proprio (raggiunto?) peso specifico. Occorre guardare a se stessi con vigile comprensione.

Chi siamo, chi siamo stati, chi vogliamo essere; soprattutto, chi siamo stati?
Tutto è dipeso da quel che siamo stati? Siamo pesanti per via di quel che siamo stati?

E se non avessimo più volto? E se non avessimo più un nome? E se non avessimo più casa, parola, opinioni, posizione, danaro, possibilità?

E se non fossimo più certi di noi stessi, liberi, sinceri? E se non potessimo più agire, parlare? E se non volessimo cambiare e andare?

E se non volessimo nulla, non dovessimo nulla, non potessimo nulla?

La cosa più pesante è diventare leggeri. Per farsi leggeri bisogna mostrare il volto, scegliere un nome, esprimere un’opinione, parlare con rispetto e libertà.

La cosa più pesante è diventar leggeri, smettere di essere massa, cominciare ad essere peso specifico: verità materiale, energica, essenziale.

Giovanni Bongo

Metropolis?

Luci. Lampioni. Panchine, poche. Strade, incroci, altre strade, altri incroci. Gente che va. Passo spedito di gente che va da qualche parte. Automobili, moltissime. Autobus, lenti o rallentati. Moto, motocicli. Rumore, molto, spesso per nulla. Comitive chiassose, comitive silenziose. Tavolini del bar su marciapiedi stretti stretti. Calici vuoti, bicchieri pieni, coppie tristi, anziani allegri, anziani soli.

Vetrine, negozi, botteghe: vetrine piene, vetrine allettanti, vetrine uguali ad altre. Kebab, sushi bar, bar. Intimi, molto intimi, intimo moda, moda che intima di essere alla moda.

Cammini, non ti guardi attorno, vedi solo cose già viste, vedi cose già viste e per la prima volta ti paiono consistenti. Affanno, molto rumore, di nuovo trepidazione.

Commerci, palesi ingiustizie fatte di stracci, lussi superbi malamente indossati.

Cinema, locandine, angoli di strade bui, angoli chiari, angoli sporchi. Bici, poche, molte; dipende. Piste ciclabili, strisce pedonali, porte antiche, basolati, mattonati, asfalto.

Un refolo di vento, i capelli mossi, un raro albero accarezzato. Alzi gli occhi, ti chiedi a cosa tutto serva: la vita va comunque come va. Il pianeta ruota. La gravita trattiene l’atmosfera. Tra un secolo, due o tre tutto muterà e sarà l’eguale. Tanto affanno, ruoli indossati con cura come maschere, valigette professionali, sorrisi di cortesia al banco del caffè elegante in centro.

Il vento corre, gli uccelli cantano, la vita esuberante continua il suo corso; il Pianeta soffre, il Pianeta guarirà. Noi, frattanto, cosa avremo fatto delle nostre vite?

G. B.

Basta!

Ho mani, mani, mani. E piedi, piedi. E ho occhi, occhi. E ho pelle, pelle. E ho capelli, capelli. Ti ho accarezzato i capelli, ieri, amore mio. Mi hai preso le mani, solo ieri, piccolo mio. Dovevo ancora fare e fare e fare, con le mani e i piedi e gli occhi. Dovevo fare passi, scrivere, parlare. Sì, parlare, perché ho bocca, bocca. E con la bocca volevo ancora mangiare, mangiare. E volevo bere, acqua fresca bere. E volevo baciare, ancora baciare. E volevo arrossire, arrossire. E fare col corpo tutto quello che si può e non si può dire. Stavamo insieme, parlando, camminando. Stavamo insieme, litigando, scherzando. Dovevo dirti, volevo dirti, sai, volevo dire, che non importa quanto, non importa; e comunque speravo tanto, sì, tanto; volevo vivere, ancora vivere, e ancora vivere; e di più, vivere. Volevo vivere e lasciare vivere e aiutare a vivere. Volevo dirti che volevo vivere, volevo vivere. E qualcuno no, qualcuno no, ha deciso di non farmi vivere, di non farci vivere. Il corpo, le mani, i piedi, le ciglia, sentire il peso della gonna sul ginocchio, il peso lieve della gonna; e le scarpe, strette un po’ sul piede. Il corpo, il corpo; sentire i pantaloni, l’orologio al polso, il piccante sulla lingua, il dolce in fondo al palato, e ancora vedere il mare, vedere i monti, vedere il sole; e immaginare il tuo corpo, il tuo corpo e amare il mio, amare il mio. Volevo, volevo dire, che ognuno dovrebbe vivere finché può, questo volevo dire. Non me lo fanno dire, non lo fanno dire. Volevo dire le mani, le caviglie, le spalle, volevo dire le spalle. Volevo dire tutte le parti e tutto intero tutto. Volevo dire che dovremmo dire che il corpo no, il corpo non si tocca per fargli del male, non si tocca per farlo soffrire. Volevo dire che non si spara, non si uccide, non ci si uccide per uccidere e no, proprio non si deve far del male. Volevo dire pace. Volevo dire questo, ovunque, non ad Ankara, non a Gaza, ma proprio dappertutto. Volevo dire il corpo. Volevo dire basta. Volevo dirvi basta. Non potrò dirvi basta. Chi vi dirà basta?

Giovanni Bongo

Woods-Morning!

Eppure non è difficile. Alzarsi e camminare. Alzarsi e salutare. Alzarsi e ringraziare. Alzarsi e osservare. Alzarsi e accarezzare. Alzarsi e meditare. Alzarsi e render grazie. Alzarsi e dire prego. Alzarsi ed essere grati. Alzarsi e impegnarsi. Alzarsi e non viver come bruti. Alzarsi e ricordare. Alzarsi e pensare. Alzarsi e dedicare. Alzarsi e fare un dolce. Alzarsi e spremere due arance. Alzarsi e fare un sugo. Alzarsi e mettere un fiore al centro della tavola. Alzarsi e respirare sorridenti. Alzarsi e dire due parole dolci a chi ci saluta appena. Alzarsi e salutare chi neppure ci saluta. Alzarsi e dire gentilmente la verità. Alzarsi e fare un bosco…

Il clima sta cambiando. Questo è un fatto evidente, questo è un fatto importante. Il clima lo stiamo cambiando noi, con le nostre opere e con le nostre omissioni. Dunque l’idea è questa. Facciamo un gigantesco bosco diffuso e universale: dalle Alpi alla Sicilia, dalla Puglia al Trentino.

Non è difficile. Basta alzarsi e piantarla con le scuse, i pretesti, le buone ragioni. Ah, le buone ragioni: tu non sai quanto io sia impegnato; beato te che puoi pensare agli alberi; io ho i figli da portare a scuola; io ho le rate; io ho la rete; io non so come tu possa pensare a queste cose alla tua età; perché non ci pensano i politici? Perché dovrei farlo io? Sai che c’è, tu hai ragione, ma come faccio io che corro dalla mattina alla sera, dimmi, come faccio io?

Come fai? Ti alzi, un po’ prima, la domenica mattina; prima della messa, se ci vai, delle paste, se le compri, del pranzo a casa, se pranzi a casa, della partita di pallone, se ti piace la partita di pallone; ti alzi e saluti il sole, il cielo e tutte le altre stelle, quelle che vedi e quelle che no. Poi fai una carezza a tuo figlio, una a tua figlia, una a tua moglie, a tuo marito, al tuo uomo, alla tua donna, a chi vuoi tu. Fai pure una carezza al cane e al gatto. Fai una doccia, fai colazione, fai tutto quello che vuoi fare.

Esci, in bici, all’aria aperta. Dai appuntamento a qualche buon amico. Bastano poche cose: una zappa, un rastrello, guanti, innaffiatoio (o annaffiatoio, scegli tu, Accademia della Crusca docet), semi, alberelli, piantine. Cerca il tuo spazio. Agisci!

Buon giorno, mondo…

Facciamo un bosco.

E diciamo Good morning al mondo intero. Anzi, sai che c’è? Diciamo woods-morning!

Prossimamente: woods-morning!

Giovanni Bongo

Se sono rose…

Se sono rose, feriranno. Perché non v’è vita che fiorisca soltanto, gioia che rimanga tale, bocciolo che non annunci spine.

Se sono rose, fioriranno – di certo. Perché queste e così sono le rose. Stiamo pur certi, tuttavia, che nel coglierle – per non lasciarle stare dove sono – subiremo un danno. Saremo punti, sul vivo o sul dito (cambia poco), e ricorderemo che dello stesso color dei boccioli è il nostro sangue.

E noi siamo vivi per il profumo e l’astioso fastidio delle dita ferite. E la vita è questo: dunque gioisci, dunque non cedere all’accidia.

Perché non sono soltanto rose e fiori; e se sono rose, stanne certo, feriranno.

Giovanni Bongo