Le priorità…

1.

Sai, dovremmo andare al centro commerciale, domani. Ho visto un nuovo televisore a led, 40 pollici, in offerta, così cambiamo quello che ci ha regalato tuo padre lo scorso anno.

Ma è nuovo…

Sì, ma è superato!

2.

Non so proprio cosa regalare ai tuoi, per Natale; hai pensato a dove trascorrere il veglione di Capodanno? Non so, intanto non ho nulla da mettere; domani vado a comprare un paio di scarpe e due o tre pantaloni.

3.

Il telefonino per nostra figlia, lo hai dimenticato? No, però c’è una offerta migliore in quell’altro centro commerciale. Domani ci andiamo… Ma è a 50 km, ricordi? Sì, ma ne vale la pena.

4.
Ho la possibilità di fare un salto di carriera, solo che dovranno trasferirmi per un anno nella nostra sede periferica.

Ma hai pensato ai bambini?
È proprio per loro che lo faccio.

5.

Che traffico, che stress, tutta ‘sta fila, per cosa poi, per le offerte del nuovo outlet cinese…  Mah…

6.

Certo che le strade sono proprio sporche, dovrebbero fare qualcosa, è davvero un’indecenza… Pronto, cosa, davvero, stiamo arrivando! Sì, che ti suoni, è verde solo da due secondi! Come? No, non ce l’ho con te, ma col tipo che strombazza dietro, aspetta aspetta, devo cambiare la marcia! Voi, bimbi, state fermi là dietro! Dicevi? Che facciamo sabato? State zitti? Non riesco a sentire cosa dice la mia amica! Usciamo? Va bene…

7.

Cosa, vuoi andare al parco domenica? Vediamo, ho la partita di calcetto, sai, i colleghi di papà, è importante vedersi, poi c’è anche il capoufficio.

8.

Queste strade, tutte una buca, che disastro, ma a cosa pensano i politici? Hai sentito le notizie, i terroristi, quelli tra un po’ che li ritroviamo in casa. Io li manderei tutti a zappare, i politici. Poi basta coi marocchini… A casa. A lavorare. Hai visto quella? Che c..o, ammazza. Sì, ti richiamo, ho per le mani un affare, no sai, un amico mio, che conosce un tizio in Regione… Poi ti spiego… Sì, a casa, tutti…

 

E tu? Le tue priorità?

G. B.

 

Fare a meno?

La nostra è un’economia dissipativa. Fondata sul consumo. Come una tragica repubblica a partecipazione azionaria.  In tale sistema tutto è calcolato in danaro, nel senso che tutto ha un prezzo – o deve trovare una collocazione sul mercato generale del mondo commerciale; deve trovare una collocazione a qualsiasi costo.

Nello spazio (ormai esiguo) di una generazione o due, con questi ritmi e di questo passo, annienteremo quel che resta di Natura, Cultura, Bellezza e Società. Al costo (è il caso di dire) di rendere superfluo il concetto stesso di credito.

Se ne può venir fuori?

Sì, ma con aggraziata ironia e rude coraggio: in primo luogo chiedendosi di cosa di possa (e ormai si debba doverosamente) fare a meno; in secondo luogo chiedendosi cosa si possa ottenere senza usare denaro per ottenerlo; infine, ipotizzando scenari diversi da quelli apparentemente già prescritti, e indicati, nel presente: insomma, immaginando un altro mo(n)do di vivere.

A cosa rinunciare? Nello spazio pubblico, come in quello privato, a tale domanda è possibile rispondere solo in modo pragmatico, misurandosi con le risorse, i bisogni, la materia di cui è fatto il mondo – e di cui si è composti. Non è, questa, una domanda teorica e astratta: concerne l’uso di risorse, spazi, cose, beni – dall’acqua al cibo, dal suolo agli strumenti tecnologici, dall’educazione alla cultura, dalla fruizione dell’arte alla possibilità di viaggiare.

Cosa ottenere senza usare denaro? Beh, la pratica quotidiana ci dice che possiamo offrire lavoro in cambio di beni: braccia in cambio di olio extravergine d’oliva, a titolo di esempio. Il che, semplicemente, ci riporta a considerare il valore non monetario della nostra esistenza e ci porta a riconsiderare l’uso scambievole delle nostre capacità, attitudini e beni. Si tratta, insomma, di elaborare un immaginario non a misura di danaro.

Alla base di tutto, tuttavia, resta la questione di fondo: cosa siamo disposti a fare per fare a meno?

G. B.

Manichini

Sorride. Esile, elegante, soda, formosa, magra, bionda, simmetrica, lineare, perfetta.

Sorride. Atletico, asciutto, biondo, simmetrico, lineare, perfetto.

Le sta bene tutto: il tailleur, il paio di jeans, la camiciola sottile e sexy, la scarpa col tacco.

Gli sta bene tutto: la vita bassa, il taglio regolare, la giacca, il giubbino.

Non una ruga, non un contrazione dei muscoli facciali, non la fronte corrugata, non il pensiero del pensiero perduto. Nulla li turba. Essi vivono felici e contenti. Felici. Contenti. Di là dal vetro, oltre il confine trasparente del reale, senza mai indugiare in congetture tristi, senza mai pensare al domani, a ieri, all’ora e qui, al qui e ora, all’ora che è.

Non sentono gli spari, non odono i rumori, non sanno che farsene del loro stesso aspetto. È il loro aspetto, non lo debbono raggiungere. Non ci sono bombe che li possano ferire.

Non debbono raggiungere il domani. Non come chi cerca di diventare a loro simili: uomini, donne – giovani, maturi – destinati ad un radioso futuro da manichini, modelli, modelle; un radioso futuro fatto di abiti, mosse, pose, bronci da foto, sorrisi da foto, party da foto, vite da foto, foto pure al cesso, foto pure al bar, foto pure ovunque.

Manichini. Mannequin. Sono finti, sono verissimi, reali oltre l’uso, l’abuso, l’oblio.

Manichini. Si spezzano ma non soffrono. Uomini, donne: soffrono anche quando non si spezzano.

Giovanni Bongo

Non cercare

Ho mangiato il pane; e ho reso grazie. Era fragrante, solido, croccante, soffice; era di grano, d’orzo, di farro e pasta madre.

Ho bevuto l’acqua; e ho reso grazie. Era chiara, fresca, dolce; e io avevo sete; e mi hanno dato da bere mani pulite che io neppure so che faccia avessero.

Ho trovato un riparo: era l’ombra di un platano messo a dimora da mani che io neppure so che faccia abbiano avuto.

Ho trovato una strada; era ampia, dritta pure nei tormenti del suolo; e ho reso grazie alle mani che l’hanno edificata come fosse non una via, bensì una reggia stesa a terra e fatta piatta per traversare in eleganza un mondo sferico.

Ho trovato un libro; ho reso grazie, sì, ho reso grazie a chi ha avuto il coraggio di scriverlo; e a chi ha avuto la fiducia di darlo alle stampe; e a chi ha avuto la volontà di donarlo.

Ho trovato un prato; e ho reso grazie alla Terra.

Ho trovato un bosco; e ho reso grazie alla Terra.

Ho reso grazie alle comete che portarono l’acqua sulla Terra fin quasi dall’inizio dei giorni; e ho reso grazie a Dio e a Natura, così sorridendo (equamente) a chi ha fede e a chi non l’ha.

Ho trovato da ridire; ho trovato da eccepire; ho trovato uno sguardo; ho trovato uno scopo; e non sempre ho saputo rendere grazie.

Ho reso grazie, molte volte; e molte volte non ho saputo ringraziare. Ringrazio chi non ho mai ringraziato con necessaria grazia – ora che potrebbe essere tardi per loro, forse non per me.

Ho trovato che si debba ringraziare; trovo che sia opportuno serbare memoria dei doni dati e di quelli avuti.

Ho perduto molto, negli anni perduti a cercar di trovare qualcosa. Ho trovato che sia stato più utile perdere che cercare, alle volte, se per cercare ho perduto quel che avevo già – e già ero – senza con ciò aver trovato quel che non sono mai stato né mai ho avuto.

Ho trovato che se non si trova quel che non si è trovato si continua (non sempre giustamente) a cercare; e che proprio non cercando, alle volte, lo si trova.

Ho trovato che talvolta non bisogna cercare. Bisogna lasciar stare. Bisogna solo ringraziare. Non importa chi, o cosa, o quando… Bisogna render grazie. Dividere il pane. Dividere l’acqua. Dividere e ascoltare…

G. B.

P. P. P.

Come camicia sporca, lacera, color sangue.

Come jeans sgualciti.

Come stivaletti infangati.

Come volto illeggibile, nome infangato, morte infangata nel giorno dei morti ammazzati.

Come desolazione, silenzio, incomprensione. Come rifiuto e santificazione postuma per borghesi in libreria.

Come tutti questi anni letti molti anni prima: come fu e come ancora siamo.

Come disse:

“Mostrare la mia faccia, la mia magrezza –
alzare la mia sola puerile voce –
non ha più senso: la viltà avvezza

a vedere morire nel modo più atroce
gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce”.

G. B.