Che cosa dice la tua coscienza? – Tu devi diventare colui che sei. F. Nietzsche
Tra te e te v’è un ostacolo: gli altri, quel che pensano di te. Tra te e te trovi un ostacolo: quello che tu stesso pensi che gli altri pensino di te.
Occupiamo, tutti, una porzione limitata di spazio in un periodo limitato di tempo. Non siamo mai costantemente nello stesso spazio e nello stesso tempo: la nostra naturale condizione è l’impermanenza, la parzialità, la provvisorietà.
Dunque, perché tanto clamore? Per cosa, poi, le nostre febbrili ricerche di riconoscimento, gloria, potere – compiute con frenetica dispersione di energia? Perdiamo energia per trattenere energia, allo scopo di conservare energia: chiamiamola pure inefficienza energetica.
Dico: bevi, se vuoi bere; mangia, se vuoi mangiare. Per amare qualcuno devi volergli bene; per volergli bene devi volere il suo bene; per volere il suo bene, devi accettare che disponga di sé come desidera. Ama te stesso con uguale misura. Solo allora potrai dire di sapere amare; e di poter provare gioia.
Cammina, se puoi camminare. Scruta le stelle, quando è notte e puoi scrutare le stelle. Non rimandare nulla ma non anticipare alcunché. Sii semplicemente presente.
Supera il pregiudizio di dover compiacere per potere piacere; supera l’ossessione di piacere per essere certo di valere agli occhi di qualcuno o di te stesso, te stessa.
Esisti e hai un compito: diventare quello che sei. Sviluppa i tuoi talenti, non i tuoi capricci. Sii te stesso, sii te stessa, non quello che ti esortano a diventare.
Se ti chiedono, rispondi con garbo. Dona solo se vuoi donare e non per apparire. Abbi cura della Terra e di te: così aiuterai i tuoi simili.
Gioisci del giorno e della notte; prova gratitudine per gli istanti che scorrono nelle tue stesse vene.
Così sia.
Giovanni Bongo
“Scrivi, scrivi;
se soffri, adopera il tuo dolore:
prendilo in mano, toccalo,
maneggialo come un mattone,
un martello, un chiodo,
una corda, una lama;
un utensile, insomma.
Se sei pazzo, come certamente sei,
usa la tua pazzia: i fantasmi
che affollano la tua strada,
usali come piume per farne materassi;
o come lenzuoli pregiati
per notti d’amore;
o come bandiere di sterminati
reggimenti di bersaglieri.”
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La nostra stessa vita, considerata nella sua interezza, è quella che possiamo definire un’opera inconsapevole di sé stessa; un’opera il cui autore è il nostro stesso io, spesso inconsapevole di essere autore e opera al medesimo tempo.
In qualsiasi punto del tempo vissuto non è immaginabile nulla di ciò che effettivamente accadrà; siamo però consci di quanto è avvenuto.
Quel che è avvenuto ci rende facili le profezie più ingegnose, ma quel che rende maggiormente infruttuosa l’immaginazione è solo la perdita di fiducia nel fatto che il meglio possibile è da ricercare in quel che già è avvenuto.
Ecco cosa significa usare ogni propria ragione, ogni emozione, ogni dolore, ogni follia e farne scrittura.
L’estesa citazione di Manganelli onora il principio cardine: scrivi…
Grazie.
G. B.
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Ed io scrivo. Perché lo prevede la mia natura. Perché a chiedermelo sono i miei nervi, i sentimenti che provo, i sogni che custodisco e i giorni che non ho ancora vissuto. Scrivo perché me lo chiedono lo spirito, la mente, il sangue.
Scrivo per passione, per amore, per dolore e per delizia. Scrivo da sempre e scrivo sempre meglio. Scrivo perché non posso farne a meno, non sarei io se non scrivessi. Scrivo perché scrivere comporta le stesse estasi dell’amore. Sì, scrivere è come fare l’amore. Le parole si avvicinano, avanzano e mi prendono. Ed è un cercarsi, un riconoscersi, un incontrarsi: le dolci pratiche del tormento. Per poi arrendermi, consapevole, come ci si abbandona al calore, al brivido, al buio, al corpo che per un tempo indefinito, è il mio stesso corpo. E così accade con le parole. Non possono esser venute da chissà dove: erano da qualche parte, vicine. L’intimità che si crea, in maniera del tutto naturale, ne è la prova. Fino a perdersi. A contorcersi. A confondersi. E tutto si annulla: quando scrivo, come in amore. Tutto si disgrega. E non c’è più cielo né terra, non c’è più tempo e né altro. Tutto è lì. E sole e luna e pianeti cadono. E chi scrive, come chi ama, non se ne accorge. E non ha fiato per ringraziare il passato che lo ha portato lì. Non ha fiato per chiedere al presente di perpetuarsi all’infinito. Non ha fiato per dire, per pronunciare parole che sono già in aria, su di sé. Pronte per posarsi sulle sue lenzuola, così come sui suoi fogli di carta. Un caos. Lo stravolgimento di tutte le leggi e le aritmetiche. L’annullamento di ogni scienza. Solo la concentrazione di tutte le poesie e le idee e le musiche coerenti a quello che sta vivendo. E che è come se scrivessero al proprio posto.
Come fare l’amore, sì. Come un fuoco che arde ed arriva il momento in cui arde al massimo delle sue possibilità: il momento in cui il fuoco brucia se stesso. Fino allo struggimento. Fino all’ultimo. Fin quando si può. Fin quando si è forti abbastanza per giungere alla fine, al termine dello scritto. Che, come in amore, è una piccola morte. Perché l’ultimo verso, l’ultima parola e poi l’ultimo punto, portano in sé la malinconia di qualcosa che è finito, e la paura che possa non riaccadere.
Scrivo.
Scrivo perché penso e credo e amo e soffro. Scrivo perché vivo. E quando scrivo, è come se vivessi con maggior forza, come se vivessi di più. Scrivo perché quando scrivo, tutto acquista un senso, anche l’ombra di una farfalla, un bicchiere di buon vino, una vecchia altalena. Scrivo perché non baratterei la Scrittura neanche in cambio della mia stessa vita: vita non sarebbe senza la possibilità si scriverla e raccontarla.
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Scrivo perché sono mortale…
Grazie.
G. B.
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Mentre le parole non lo sono…
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Finché ci sarà tempo, per il Tempo…
G. B.
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