Camminiamo per raggiungere; camminiamo per fuggire.
Stazione eretta, deambulazione, transito: ecco il segreto peculiare della nostra specie (ormai) sedentaria, troppo spesso negoziante, commerciante, giudicante. Chi cammina è (nonostante il fitness assai di moda) scrutato (ancora) con vago sospetto: è nomade, perditempo, perdigiorno, inafferrabile, lento ma non fermo, in moto (non rettilineo uniforme) e inquietante.
Che camminano a fare? Ecco la domanda dei residenti, dei seduti, degli accomodati, dei sistemati in auto o in ufficio. Si dice, a uno che voglia prendere un posto nel mondo: “si metta pure comodo“; lo si dice a chiunque, sedendo, possa tornare utile alla causa di chi è già seduto. Sedersi è, sovente, sedarsi: cedendo in trappola.
Chi cammina, al contrario, suscita l’idea dell’inutilità e del vago e dell’improduttivo. Dunque, se cammini, sappi di poter apparire fuori ruolo, fuori schema, inquietante, inservibile, troppo complicato per essere utile.
Sebbene nelle metropoli ci si muova spesso a piedi, per andare in ufficio o a scuola o a risolvere faccende; sebbene sia una buona cosa fare le cose camminando, il camminare più profondo è, soprattutto e in primo luogo, una fatica fatta per non andare da nessuna parte: per sfuggire agli obblighi non voluti; per ritrovare sé stessi nel caos del mondo, per generare caos capace di suscitare stelle danzanti: libertà, unicità, scelta.
Da cosa fuggire, cosa cercare? Ogni camminatore risponde come può.
C’è chi fugge, materialmente, dall’insulto, dalla guerra, dalla fame, dal sopruso, dallo scherno; chi fugge dall’insensatezza, dalla malinconia, dalla nostalgia; chi dall’opulenza, dalla ricchezza smodata, dal successo e dalla gloria; chi da qualcosa di assai meno appariscente e invero sottile, bruciante: la vergogna.
Il mondo è pieno di vergogna mal dissimulata: un senso di disagio riemergente durante una lite, quando ci si insulta e volano bicchieri, quando si vuole solo prendere la porta e andar via; quando si desidera essere lontano, lontano, lontano – presso le stelle, verso gli orizzonti (l’orizzonte singolare è sempre un plurale mal interpretato) del domani, verso una pace sincera, verso un amore senza alcun astio; verso la verità di una vita degna e sensata e libera.
Andare è dare: prospettiva al proprio sguardo, possibilità al proprio cuore, terra ai propri piedi; e forse speranza – anche se la speranza stessa, alle volte, toglie speranza; andare è cercare gioia.
Lo zaino talvolta è molle; non per questo è meno pesante; v’è nella mollezza un sovrappiù di pesantezza. La stessa pesantezza che rende imprecise le gambe, dette molli per dire stanche, non vigorose, non solide.
Lo zaino di chi cammina è, talvolta, molle e gravoso come il contenuto, molle, di una conversazione senza pietà.
Si fugge da tante cose simili, si cerca il mai veduto: quando si cammina contro ogni logica, ostinatamente; e in modo simile quando si scrive contro ogni ragione, chissà se letti, da quanti, e se compresi, da quanti.
Ecco, camminare è come fare poesia: inutilmente, proprio per questo per bellezza.
Il camminatore è un poeta male-detto e male-letto: da dire meglio e da leggere con più attenzione.
La domanda di tanti suona come una beffa: che cammini a fare? Come se la bellezza, la ricerca fine a se stessa, il voler vivere non come bruti ma per “seguir virtute e canoscenza” fossero lussi da giustificare ogni santa volta.
Camminare per seguire virtù e conoscenza non si giustifica, si fa: per seguire orizzonti senza inseguire miti dorati di un mondo generalmente seduto.
Camminare così, oggi e per chissà quanto ancora, è vivere.
Giovanni Bongo