Vivere!

La notte fa chiarezza – nella riflessione. Un istante prima di dormire, il giovane immagina. Il futuro è il suo regno. Egli è, o crede d’essere, forte abbastanza da dimenticare i danni già patiti. Egli è innocente, a tratti vanesio: trascina le stelle con gli occhi.

Un istante prima di dormire, il maturo ricorda. Il suo regno è il passato, un dominio di credenze dissolte, di rimpianti acidi, di pietre senza radici; è stato il suo stesso essere irredento.

Un istante prima di dormire, il vecchio non ricorda: è tutto, solo, nel suo corpo esausto, inessenziale, nudo come alla nascita ma pronto al dubbio immenso del cosmo.

Vivere? Dal primo istante è lotta, richiesta, furto, volontà; si ha subito fame d’aria, dopo aver riposato in acqua; si è subito un tumulto d’essere che non sempre riesce a esistere; si caccia, si brama, si desidera.

Crescendo si impara la solitudine. Desiderare, ecco il verbo della carne che vive. Desiderare tutto, il contrario,ancora l’opposto e infine niente di quel che si è avuto.

Il nostro tumulto elettrico, il caos,l’esibizione, la ricerca sono necessari quanto il caso.

Peccato non è peccare, peccato è non comprendere, dopo millenni, che la nostra condizione è questa ed è di tutti noi. Dunque pietà, per tutti.

La Natura è, in noi, la ragione del nostro distacco dalla Terra. Cosa possiamo fare, dunque, per accrescere la gioia? Stare gli uni con gli altri in pace. Amarci. Donare. Preservare.

Tutti vogliamo vivere e respirare; i nostri corpi sussultano, le nostre dita bramano, le nostre bocche ansimano, siamo transeunti – e vogliamo ridere.

Vogliono ridere i fuggiaschi, i diseredati; vogliono vita i bimbi; vogliono vivere i corpi in cerca di pane e quelli in fuga dalla pena di non essere liberi.

Occorre un’etica della vita, certo, ma che valga per tutti, che sia pietosa, non astratta, non spietata; che sia buona. Siamo fragili nella nostra patetica volontà di potenza – e di esistenza.

Non siamo nati per vincere, ecco tutto; siamo nati per vivere.

G. B.

 

Camminare 24

Ho così scoperto, chino su pietraie bianche come sudari e veli nuziali, che camminare stanca – mentre cura, inebria, consola.

Ho capito – facile a dirsi – che camminare rende sobri e brillanti. Ho sentito nostalgia sulla fronte fradicia, desiderio nelle gote rosse, rabbia nel respiro spezzato in più punti e gioia nel passo riordinato masso dopo sasso.

Ho compreso (banalità di ogni scoperta) che camminare è per tornare, andando; ho fatto cammini, pensando; ho ricordato, mentre battevo i calcagni, forzavo sui talloni e le dita, cercavo in me la terra e il sole: lo spazio e il tempo.

Ho scoperto che la morale è, per molti, più un tranello teso che un principio esteso.

Ho scoperto, poi, la fragilità (di chi siamo), la mortalità (di chi amiamo), la crudeltà (di chi ci dice t’amo); e ho infine intuito alcune vacuità intorno ai solidi e altre solide amenità intorno al nulla di cui siamo ghiotti: scopi, gloria, carriere, punti d’arrivo e punti senza ritorno, ricchezze, eternità.

Come confinano l’odio e l’amore, piuttosto, questo è degno di racconto.

Odio e Amore sono prossimi – vicini più del giorno e della notte, senza sfumature a separarli, albe e tramonti a introdurli. Odio e Amore si corrompono reciprocamente come parassiti senza scopo e crescono l’uno nell’altro con tale frequenza da farci chiedere se per spezzare l’Odio non si debba anche abbandonare l’Amore. Certo che no, non rinuncio: infine non faccio che amare, di là dal bene e dal male; dunque conserverò i miei dubbi e amerò finché potrò.

Cammino. Lo faccio perché mi è incomoda la sosta, disagevole l’attesa.

Non è che mi culli in quel che ho compiuto; al contrario, vorrei indossare molte altre maschere, rivelare altri miei volti necessari, provare a essere in mille altre vite non vissute. Non accadrà, perché il cammino fatto è fatto.

Resta il presente, mentre accolgo la lezione del mare: a ogni sosta, aprire lo sguardo e non serrare le palpebre neppure nella luce più acuta; tenere aperti gli occhi; guardare, a lungo e a fondo; infine, vedere!

G. B.