I figli degli altri

Volere il Mondo a proprio piacimento, a propria immagine e somiglianza, ai propri piedi. Fare a pezzi, uccidere in strada, uccidere in chiesa, uccidere in ospedale: fare di ogni cosa un’arma, fare di ogni corpo una cosa; dileggiare i corpi, combattere il terrore con altro terrore.

Chi può divaga: con il cane a tavola, con le galline in gabbia, con le fragole d’inverno, con il ghiaccio d’estate; con donne bambole, uomini giocattolo & bimbi à la carte.

I bimbi, già: buoni solo se nostri, se tanto voluti, se tanto desiderati, se tanto utili alla causa del nostro ego perduto. Quando i bambini degli altri muoiono, nessun trombone ha niente da dire.

Chi bombarda ospedali sperduti in terre condannate uccide i figli degli altri nel nome della sicurezza mondiale, della stabilità, del profitto o di qualche altro idolo infame.

I bimbi degli altri non vanno al mare; li si ammazza per sbaglio; sono vittime collaterali di guerre periferiche. Nessuno prega per loro. Muoiono e basta. D’estate. In questa estate in cui si tira a campare, si attende la chiamata, si scruta la graduatoria ad esaurimento nervoso, si spera nel tempo indeterminato, ci si fa schiacciare da governi idioti e si trova una ragione per tutto, purché ci siano quattro soldi per le solite banalità: aperitivo dopo aperitivo, festa dopo fiera, serata dopo serata – facendo tardi per non fare nulla, per non dirsi nulla, per non pensare nulla.

Cerco sguardi, invoco buona volontà; non prego; avverto un grande pericolo. La prima cosa è sentire il pericolo. La seconda è parlarne. La terza è fare qualcosa (ma cosa?) prima che sia tardi per tutti. Prima di sentirsi folli per aver visto l’abisso; dei propri figli e dei figli degli altri.

G. B.

Dell’amore (1)

 

Un moralismo applicato all’amore dice: ama il diverso! Così il simile fugge il simile. Che errore fatale, generato forse dalla paura di sé, forse dall’odio sottile per l’amore che ama senza sacrificio: libero e giocoso come Eros prima dell’avvento dello straziante (religioso) sacrificio di Eros!

Perché fuggiamo il simile? Perché disdegniamo le affinità elettive che solo il simile procura?

Così facendo, fuggendo il simile, assecondiamo l’illusione di doverci unire al dissimile, ora a uno ora a un’altra tanto diversi da lasciarci spassionati – stremati dalla dedizione a una “causa d’amore” e non a un amato o a un’amata fatti di carne e di respiro.

Chiariamo l’inganno. La felicità, in amore (come in tutto ciò che è vita) deriva dallo stare con chi è simile a noi e dal fare quel che davvero siamo! Quale idolatria ci spinge a unire il nostro destino a quello di chi, incolpevole, non può darci sollievo ma solo affanno? Quale follia ci spinge a fare quel che non amiamo fare solo per dovere e mai, giammai, per piacere?

Così il piacere, furtivo, diviene sollazzo nascosto, trasgressione crassa, melanconico passatempo, godimento tristissimo: v’è il bancario che solo di notte scrive poesie; v’è la moglie che nella quiete serale sogna l’uomo che non osò amare. Che asfittico spreco di energia.

Il simile, amiamo il simile; sì, amiamo chi con noi gusta il nostro stesso gusto e chi con noi disdegna quel che noi stessi respingiamo. Per lo stesso motivo, facciamo quel che siamo: scriviamo, se siamo nati per scrivere; viaggiamo, se siamo nati per viaggiare; facciamo quel che amiamo fare di noi, senza calcoli e investimenti micragnosi, tanto il reso è da rendere comunque alla fine del nostro tempo terreno.

Il simile, per prossimità profonda, è l’amante perfetto: comprende al primo sguardo, non suscita sermoni, non dà asfissia, condivide i nostri limiti e ci rende unici – perché è nostro specchio, ci rivela, traspare, consente; e ci migliora nella comune tenerezza. Gli affini, non i “diversi” male armonici, si amano.

Amiamo i nostri simili: ecco il consiglio!

Prima, però, accogliamo il simile in noi. A furia di diventare diversi da chi siamo (per smania di distinzione o per vergogna inconscia), abbiamo smarrito noi stessi. Ci siamo omologati per distinguerci, siamo diventati diversi per essere come tutti, abbiamo scelto il “diverso” a dispetto di ogni differenza millantata; infine, abbiamo smesso di amarci e di amare, nel divorzio dalla nostra metà perduta.

Il simile non ci parve abbastanza grande da contenerci; mentre, in verità, era tutto per noi ed era tutto quello che ora ci manca: così simile a noi da apparirci, solo ora, differente, perduto e struggente.

Giovanni Bongo

Di Moda & Morte

Sembra un’estate fredda, questa estate calda. Sembra un’estate fredda di morti.

Sono morti di incuria, morti d’odio, morti di oblio. Sono morti innocenti su binari che portano al nulla, corpi frantumati in cartocci di lamiere rese lame strazianti. Poi c’è il dolore, con le scuse, con le accuse, con la pompa magna del potere e le pompe funebri sul luogo del disastro immane riproposto cento volte con pornografica sterilità; poi ci sono le scuse, le accuse, le lacrime perdute a chiamare i nomi che non rispondono più.

Sono morti in festa, liberi fraterni e uguali lungo un mare che ormai ci separa soltanto. Sono corpi travolti dalla furia del terrore, terrorista o solo psicolabile, di un uomo solo al comando del suo tir fatto simile a un’arma sconnessa; sono morti falciati da un uomo sommerso, e scatenato, dalla furia di un’unica lucida fiamma di rabbia depressa.

Non bastassero questi morti, ecco un golpe notturno tentato in Turchia come in una notte bianca dell’astio.

Eccoli, i morti caldi dell’estate: incidenti con varia causa nelle località del turismo d’obbligo, contabilità silente della quotidiana ricerca di pane sulle rocce di Lesbo o nel cuore dell’Egeo, mero disturbo d’agenzia nelle rotative di mille eventi serali stampati su carte allegre o condivisi sui diari dei nostri confusi profili social. Ecco l’estate: concerti, sagre dal niente, luminarie per un buio sociale pesto, approdi VIP su spiagge chic, incendi choc, abusivi trash, mondezza stradale, abusi assai cool e varia idiozia rallegrata dalla nostra sensazione di essere al centro di un impegno quotidiano speso per il benessere, per il relax, per lo svago, per il divertimento inebetito tipico di ogni caduta d’Impero.

Mezza estate – metà alla moda e mezzo morta: chi di noi ride ancora, è davvero allegro? Chi non ride più tanto, è pessimista, è savio o è finalmente fuori logo?

Giovanni Bongo

 

Ci lasciamo, soli!

Chi non c’è. Chi non sa. Chi non può. Chi non vuole. Chi non ha tempo. Chi non ha modo. Chi non ha modi. Chi non sa da che parte cominciare. Chi non ricorda come si fa. Chi non sa che parte avere. Chi teme e si chiude. Chi si fa gli affari suoi. Chi si fa gli affari tuoi ma non lo dice a te, lo dice agli altri. Chi lo dice a tutti ma non a te. Chi non sa che fare. Chi non fa che dire, dire & dire; poi non fa, o non fa con te. Chi non dà. Chi non deve mai darlo a vedere. Chi non sale più a vedere. Chi non chiama ancora. Chi non ascolta mai. Chi non ascolta più. Chi ascolta appena. Chi risponde prima di ascoltare. Chi non sa più se iniziare a dire. Chi non può adesso ma la prossima volta ci sarà; la prossima volta, la prossima volta. E adesso? Ci lasciamo, soli!

G. B.