Salire è un po’ fallire. Salire, arrivare in vetta, accorgersi che c’è una vetta ancor più alta da guadagnare. Fermarsi, farcela, rinunciare, ritentare. Un passo avanti, uno indietro, fermi nella pietraia, simili a Sisifo nella sua valle di impossibilità.
Chi non sopporta la tua ascesa ti impedirà di andare, ti dirà che non si può fare, ti accomunerà alla sua mediocrità basale, ti dirà di scendere. Se ce la farai, dirà di esser tuo amico, ti proporrà di banchettare, ti inviterà a salire (ancora) insieme. Scuoti i piedi e vai da solo, piuttosto, non stare con chi ha lingua insincera.
Tu vai comunque, in solitudine se necessario o con pochi (onesti) compagni di passo – che sono sempre pronti a incoraggiare sé stessi e anche te, nella nebbia e nel vento.
Salire è un po’ fallire: avrai contro gli elementi, i tuoi limiti, apprensioni imparate come geometrie illogiche. Eppure, arriverai in alto e in altro se camminerai.
Ti guarderai dietro, dentro e attorno; noterai perdite, errori, danni. Immaginerai rimedi, quando le proporzioni “giuste” e il punto di vista “migliore” ti faranno sentire in alto e in altro.
Tutto è già stato, invece, nulla potrai riavere. Salire non conosce ritorni. Lontano (nello spazio e nel tempo) da quel che sei stato, distante dai “se” e dal perduto sé, non ti resterà che procedere: un passo avanti, uno indietro, un altro verso l’alto e verso l’altro. Sali e cambia. Fallirai ancora. Con errori nuovi. Sali finché hai ferro nel corpo.
G. B.
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