A un tratto, il crollo. Non saper continuare. Non sapere dove andare. Non sapere se procedere. Perdere bussola, senso, marcia. Camminare è impossibile, ora, con questo peso dentro e non più fuori. Non è mera fatica, è sfinimento. Non è impegno, è pura astenia. Gli occhi pesano, al risveglio. Le lacrime offuscano lo sguardo, mentre si è in marcia. I piedi non sentono il suolo, l’equilibrio è molle, la volontà è spenta. Che fare? Al bivio, passare oppure cedere? Continuare? Al prossimo bivio, fermarsi? Fermarsi per dormire, per sognare, per morire? Dormire? Non per un’ora o una notte, ma fino all’ultima ora e all’ultima notte?
La delusione ha incontrato la vanità del pellegrino, entrambe hanno sedotto la sua ragione, e ora egli non trova ragioni per continuare: pessimismo fatale, che nel Cammino si incontra, si teme come la peste, non si può prevedere. Che fare vuol dire: cosa ho fatto di me e del mio tempo e della mia vita? Ecco la Crisi, quella terribile e senza rimedio apparente: né gli amici, né la doccia, né l’acqua fredda sulla fronte e sulle cosce, né il vino, nulla. Ecco la Crisi. Secca come il vento torrido, umida come la noia, acuta come il silenzio di una coscienza tanto vigile da apparire ebbra.
E ora? Camminare ancora, cos’altro? Passo dopo passo. Senza vederne lo scopo. Senza avvedersi di farlo. Camminare, l’unica cosa che c’è.
G. B.