Il viandante conosceva la sua più grande paura. Lo turbava la fine delle cose, ovvero la mortalità degli alberi, dei fiori, degli uomini, di tutte le cose visibili e invisibili. Lo affliggeva il pensiero dell’inesorabile perdita di tutti gli istanti imperdibili.
A tratti gli pareva di voler vivere tutti i tempi nel suo tempo. Avrebbe desiderato essere presente ovunque, in ogni istante della sua esistenza passata, presente e futura; al fianco di tutte le persone conosciute, amate, perdute.
Capì, in tal modo, di dovere sorvolare sui suoi soliti dubbi per intraprendere un cammino ancora più profondo negli abissi della sua coscienza. Voleva conoscersi maggiormente, perdonarsi ulteriormente, amare il più possibile e superarsi nelle prove di ogni giorno. Si era dato un compito: aiutare gli altri a riconoscere le loro angosce. Rifletté a lungo e concluse di saperlo fare. Ecco il suo mestiere: attraversare l’inconscio e trarre dal fondo del suo essere fango e gemme, infine portare alla superficie della sua consapevolezza sia il fango, sia le gemme.
So far questo! – esclamò sulla pietraia, mentre incedeva solennemente verso la cima. Infine ammise, con elementare rigore logico: se abbiamo bisogno di fabbri, di panettieri, di ingegneri, medici e scalpellini, è pur vero che nessuno può rinunciare a comprendere chi sia, cosa sia, un Uomo!
Tornò a tacere. Fece pace col suo passo, smise di provare disagio per non essere diventato altro da quel che sapeva d’essere, accettò di essere quel che ad altri non sarebbe stato possibile diventare. Era chi era, era com’era: perfetto così imperfetto. Il Mondo ha posto per tutti i mortali e per le loro arti: la prima e l’ultima delle quali si chiama conoscere.
G. B.