In mezzo al mare

Ho mani, mani. E ho piedi. Ho occhi, occhi profondi, e ho pelle, capelli, sogni. Avevo sogni. Ti ho accarezzato la testa, ieri, amore mio. Mi hai preso le mani, ieri, piccolo mio.

Dovevo ancora fare, fare, fare. Dovevo fare con le mani e con i piedi. Dovevo guardare. Dovevo camminare, scrivere, parlare. Sì, dovevo parlare. Perché ho bocca e pensieri.

Con la bocca volevo ancora mangiare, bere, baciare. Volevo fare con l’intero corpo tutto quello che si può e non si può dire.

Stavamo insieme sul barcone. Stavamo insieme in silenzio.

Avrei voluto dire che volevo vivere, lasciare vivere, aiutare a vivere.

Qualcuno ha deciso di non farci vivere, di non farmi vivere. Ho avuto freddo. Avevo freddi i piedi, le mani, gli occhi; ho sentito il peso del mio sangue, delle scarpe, dei vestiti pieni d’acqua nel mare grande e freddo. Non posso più dire com’era bello il mare dalla spiaggia, com’era bello guardare il cielo.

Mi hanno fermato al confine immaginario di un mondo inesatto. In pieno male, in mezzo al mare.

G. B.

italiano medio

Pashmina, infradito, berbuda, borsello, occhiali e selfie. Renegade, vai a puttane (united colors of autostrade, possibilmente), sei razzista sottovoce, sei fascista sotto sotto, alzi la voce tra i tuoi simili, scrivi odio e banalità sui tuoi social. Il tuo ministro ha le palle, le tue ferie sono retoriche come i tuoi gesti banali: vai a Sud ma detesti i terroni, vuoi mangiare tanto e spendere poco, vuoi tutto e non capisci niente. A casa loro – è la tua frase preferita. Li vedi morire, annegare, i negri, che ti tolgono il lavoro, la pensione, i 35 euro, il sonno, la sicurezza e l’alibi che ti permette di celare la tua stupidità.

Scommetti su tutto, tifi solo se vinci, tifi solo chi vince, vinci sempre e non perdi mai, stai sempre con chi vince, non hai mai perso. Sei stato (e sei, all’occorrenza) fascista, democristiano, comunista, forzista, leghista, purché se magna. Sei autobiografia di una nazione, per te, mai nata e con te quasi estinta.

Vai ovunque a portare il tuo chiassoso volgare style, ascolti orrenda musica da ballo nei boschi, fai escursionismo in mocassini, fai sport estremi in mare aperto e a mala pena sai cos’è un vento.

Lasci i tuoi rifiuti in spiaggia, alzi la voce senza ragione, compri firme senza eleganza, hai i soldi e non hai eleganza. Sei quello che sei, una  caricatura, un ipocrita, un dito medio sollevato contro chiunque non abbia avuto in sorte (sfortuna?) di essere come te: un mediocre di successo.

Gli eroi giovani non sono morti per te!

Giovanni Bongo  

Detenuti stranieri: tra emergenza sanitaria e bisogni educativi.

L’aumento della presenza straniera in Italia sta apportando un cambiamento radicale nella situazione penale e carceraria, come sta accadendo in tutto il resto del mondo occidentale. Si tratta di un fenomeno che sembra destinato ad aumentare. La situazione paradossale è che spesso l’immigrato, “non persona”, non esiste ai sensi dello Stato finché non finisce nelle maglie della giustizia, pertanto all’interno del carcere migliaia di persone cominciano ad esistere solo in quanto detenuti. Tuttavia quel percorso di esclusione, che li ha contraddistinti fuori, rischia fortemente di continuare all’interno delle strutture che dovrebbero riabilitarli. Il detenuto ha diritto al pari del cittadino in stato di libertà alle prestazioni sanitarie di prevenzione, diagnosi e riabilitazione. Nella realtà la privazione di libertà impone al detenuto di dipendere, per la più piccola necessità, da chi lo tiene in custodia. Il detenuto straniero ha gli stessi diritti e doveri del detenuto italiano, ma allo stato attuale si trova discriminato nei fatti.

Nell’esplorare il binomio trattamento sanitario – trattamento educativo per i detenuti stranieri emergono grandi differenze e maggiori problematiche. Molteplici le domande che si presentano. Come avviene il rapporto tra detenuto straniero e personale sanitario? Quale può essere il ruolo del mediatore culturale nella gestione di un percorso sanitario con il detenuto immigrato? Come si manifesta la richiesta d’aiuto? E come prendere in carico la richiesta, consapevoli che essa, strumentale o meno, è sempre prodotto di uno star male, e pertanto è strumentale in quanto funziona come meccanismo di difesa per sottrarsi alla sofferenza? Altre domande emergono riguardo ad eventuali progetti di formazione e lavoro. Quali percorsi formativi professionali per detenuti stranieri ipotizzare, ideare, strutturare e proporre, se non sono garantite le condizioni igienico-sanitarie di base e se c’è confusione sul futuro del dopo pena? Se è un dato di fatto che conoscere la lingua italiana è comunque una competenza di base necessaria per la relazione umana, per la comunicazione e in genere per la vita quotidiana, oltre quella linguistica quale formazione potrebbe essere utile ad un detenuto straniero? Una generica o una specialistica? Una pensata per il reinserimento in Italia o una per altrove? Buona parte dei detenuti stranieri ignora cosa li aspetta una volta scontata la pena. Un discorso a parte meritano i bisogni educativi dei detenuti stranieri, poiché l’assunto di partenza è il seguente: se da una parte vi è la questione delle differenze da rispettare, dall’altra vi è un immensurabile groviglio di analogie, cose condivise e condivisibili, bisogni comuni, compresi quelli educativi. Non vi può essere ghettizzazione dei bisogni. Il rischio è che vi sia una peer education al negativo, in cui il detenuto straniero è educato dai suoi pari (i connazionali, gli anziani di cella). Il processo rieducativo a quali valori deve far riferimento? A quelli italiani? A quelli della cultura di appartenenza? O a valori universali nel contesto di un relativismo culturale? Solo con un passaggio da un pensiero unico e assoluto ad un pensiero mobile ed erratico si può costruire un percorso comune di risposta ai bisogni educativi, in primis sulla natura stessa della legalità e dell’etica. Il pensiero mobile ascolta ed elabora connessioni ed intersezioni, si ridefinisce in base allo scambio effettuato. Il pensiero erratico si sradica dal “centro”, si osserva dall’esterno e torna in se stesso, pronto a rimettersi in gioco ogni volta. Questa sfida, dialogica e relazionale, è la più grande a cui è chiamata oggi un’Amministrazione Penitenziaria che si pone in una dimensione transculturale.

Se i detenuti stranieri si trovano in una situazione in bilico tra l’emergenza sanitaria che rappresentano e i bisogni educativi che esprimono, i concetti (ad oggi ideali) di carcere e salute, carcere ed educazione, carcere e legalità, carcere e riabilitazione devono assolutamente essere prioritari per uno Stato che si fa garante dei diritti umani e che si ritrova invece con carceri sovraffollate e con una popolazione straniera in aumento.

Quali gli scenari futuri?

Pina Mangifesta