Quando si cammina da molto tempo , arriva un momento in cui non si sa più bene quante ore sono già trascorse, né quante ancora ce ne vorranno per arrivare alla meta, si sente sulle spalle il peso dello stretto necessario, ci si dice che basta e avanza – non occorre poi molto per tenersi in vita –, e si sente che si potrebbe continuare così per giorni, per secoli (…) E ci si sente liberi perché, non appena si richiamano alla mente gli antichi segni della nostra permanenza all’inferno – nome, età, professione, curriculum –, tutto, ma proprio tutto, appare irrisorio, minuscolo, inconsistente. Frédéric Gros
Cammino e dimentico. Mentre ricordo. Mentre fantastico. Dimentico. Cammino e (non) so più chi sono. So e non so, a dire il vero. Chi sono? Il mio nome? La mia identità? La mia professione? O non, piuttosto, la mia progressione, le mie disfatte, i miei silenzi? Cammino. Mi viene facile di dire chi sono senza esserne più tanto convinto. Lo dico a chi ho accanto. Che importa dire: salve, mi chiamo, faccio? A patto di camminare senza scopo; meglio, col solo scopo di camminare, conta maggiormente dire altro: sono qui perché sono qui, a cercare quel che non troverò, a ricordare, forse a dimenticare la ragione vera per cui sono partito.
Non si tratta di andare a comprare il pane. Si tratta di andare e non pensare neppure al ritorno. Anzi, di considerare il ritorno come un’evenienza disturbante – comunque remota.
Quando lo zaino è compiuto si tratta soltanto di intraprendere un’azione destinata a durare giorni, settimane, forse mesi; e ci si sorprende a pensare: magari fossero anni, però col vigore odierno.
Si è quel che si è volta per volta e per chiunque: si può millantare tanto tutto è vero: vesciche, sudore, tristezza, gaiezza, fame, sete, voglie inconsulte e incomode. Con un tratto di irresponsabilità, ma di maggiore attenzione, si attraversa il mondo. Si va oltre ogni indugio, ad ogni bivio; eppure si è davvero attenti ad ogni piega del paesaggio, ad ogni occhio incontrato, ad ogni segno proprio (del corpo, della mente), ad ogni evenienza.
Camminare significa non essere più gli stessi. Quelli abituali: conteggiati, contattati, previsti, visti, rivisti.
Si va. Paese dopo paese. Città dopo città. Pianura dopo collina. Si va. Nessuna possibilità di ritornare sui propri passi. Ammesso che ve ne sia una, di possibilità, perfino nel recinto delle misure quotidiane.
Non un saluto meccanico al solito barista, al solito vicino di casa, al solito conoscente. Nessun solito tragitto.
Ci viene fatto un complimento: inatteso. Ci viene mossa una critica: immeritata. Tutto come ogni giorno della vita da stanziali, ma tutto fortemente dichiarato, colorito, duro.
Si è soli e insoliti. In qualche modo insoluti. È il camminare: un verbo sostantivo sostanzioso. La parola che si fa carne, senza alcuna possibilità di sfuggire al proprio sentire. Senza altro scopo; contenendo tutti gli altri scopi possibili, ovvero soltanto immaginati, nei passi che seguono i passi.
G. B.

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