L’Impura Verità!

Se si ha torto di aver ragione quando si ha ragione senza sapere perché, si ha mille volte più torto nell’aver ragione senza amore né carità. Vladimir Jankélévitch

 

La verità ti fa male, vero? Chi la dice è bravo e buono; devi dire la verità. Devi dire dove si nasconde Anna Frank, devi dirlo. Dovrà pur finire dove merita di stare, lei con la sua famiglia ossuta, gli occhiali storti, i libri gialli, le quattro vesti: devono aver fatto qualcosa di terribile per meritare l’odio che richiamano.

Devi dire la verità, anche a costo di far male, in fondo è per il loro bene.
Devi dire al disperato che è un fallito, così che comprenda che è il suo fallimento la causa effettiva della sua disperazione. Devi dire al fallito che è un disperato, così che comprenda che è la sua disperazione la causa effettiva del suo fallimento.

Devi dire all’uomo che ama l’uomo e alla donna che ama la donna che essi sono contro la natura delle cose: devi dirlo, così che il misero catechismo dei contabili detti legge all’incommensurabile mistero dell’amore.

Devi dire al giudice che quella coppia ha fornicato, così che il formicolio nelle mani del confessore si trasformi nel piacere di impartire regole e penitenze e poi di dargliele di santa ragione: è nel dolore che procura che egli gode, il grande inquisitore dell’innocenza che sa sporcarsi per essere sé stessa – amando, sì, amando.

Devi dire che il tuo vicino ti sembra un tipo sospetto, con tutto quell’aglio che consuma e con quelle musiche un po’ cacofoniche che vengono dal suo vecchio stereo: chissà che dicono, con quelle voci nasali che parlano di Allah.

La verità vi farà liberi di fare a pezzi i vostri simili, perché voi senza dubbio siete i migliori; lo si può dedurre dalle etichette che avete sui citofoni, dalle targhe dei vostri usci, dalle vostre lussuriose auto sempre lucide, dal fatto che andiate a messa per pregare – sempre buttando un occhio distratto sulle natiche della figlia del commendatore che si siede sempre davanti a voi; è da dietro che si vede quale faccia abbiate sul volto!

La verità fa male, vero? Fa male al barbone al quale non date nemmeno uno spicciolo, “che andasse a lavorare, come ho fatto io, dopo la laurea presa col massimo dei voti” – i voti di zio cardinale.

Che ve ne frega del fatto che il barbone abbia in tasca un capolavoro come Martin Eden o che parli tre lingue o che conosca tutta la vostra breve filosofia da dispensa e anche molto di più di quel che voi neppure immaginate di avere nell’armadio?

Devi dire la verità, devi denunciare, devi ledere, devi darla a credere; ma sempre contro il debole, sempre dall’alto in basso, sempre contro la bimba magra dagli occhi infossati, sempre contro la donna che si fa in quattro per essere buona madre, moglie, amica e lavoratrice; sempre contro l’uomo “precario” che continua a fare di tutto pur di darsi decoro e dignità secondo coscienza e con chiarezza; sempre contro i senza patria e contro i solitari che non hanno più neppure la strada che percorrono scalzi; sempre contro i lavoratori senza ferie, contro chi deridete, contro i “minimi” che offendete e che pure (vi piaccia o no) vi accomunano al multiplo che credete di essere (e non siete) e al denominatore comune (anche vostro) che siete di certo e si chiama: umanità!

Piccoli Uomini & Piccole Donne commerciali; piccoli e piccole non per fragilità, per sventura o per grazia, bensì per miseria di intelletto, spirito, cuore e volontà: la vostra verità non vale neppure il vostro impuro sguardo pieno di livore. Vi sarebbe più verità nella vostra menzogna e nel vostro odio se riusciste, almeno una volta, a dargli parola – a dare parola viva a quel che vi tormenta di là dal chiacchiericcio pettegolo che fate nelle vostre chiese o nei salotti plastificati delle vostre immacolate case di Famiglia.

Parlate di giorno, perché di notte siete altro, perché al buio si vede chi siete; perché la vostra verità vi condanna più delle vostre illazioni- quando, lontano dal pubblico giudizio, che tanto temete, date sfogo alla vostra triste verità impura e, forse per una volta, vera.

Giovanni Bongo

 

 

 

Plastisfera

 

La plastica, sotto la specie del rifiuto aggregato (gelatinoso, massificato, galleggiante) è diventata una nuova e imprevista nicchia ecologica planetaria?

La plastica, alla quale la Società si è già adattata da decenni, è una seconda natura per il Pianeta denaturato?

La plastica, oggi, in quantità incalcolabili sta occludendo gli oceani, formando isole continentali collose e mobili, viscose e stabili: una ulteriore minaccia per l’ecologia marina e, più in generale, per l’intero equilibrio ecologico planetario.

La plastica è (plasticamente?) molte cose: epoca, era, stile, modus operandi, forma del pensiero, archetipo industriale, modello estetico, visione del mondo, semantica – non più solo un materiale, dunque, ma una forma, una “gestalt”, una vera e propria dimensione della civiltà; alludiamo, qui, alla civiltà che su di essa è stata edificata.

Abbiamo avuto un’età della pietra e un’età del ferro; questa è, dunque, l’età della plastica.

La plastica ha trasmutato i nostri modi di fare e di pensare; e se è vero che è dal fare che il pensare trae, sovente, giustificazione ideologica, siamo finiti col pensare in modo plastificante: ideologia dell’artefatto eletta a morale.

La plastica: negli innocenti, e non del tutto incolpevoli, anni ’50, contadini mal istruiti e borghesi arricchiti abbandonarono orci in terracotta, piatti in ceramica, bicchieri di vetro, mobili di legno, per accogliere in casa bacinelle in plastica blu, stoviglie di plastica trasparente, mobilio (orribile) in plastica bianca. La TV mostrava casalinghe soddisfatte dai nuovi, versatili, oggetti in plastica; erano gli anni del dominio americano; l’America dettava i dettami; il petrolio era la moneta globale, misura di ogni moneta locale: petrodollari.

Nel volgere di pochi decenni, dalle buste in plastica per la spesa alle bottigliette di plastica per l’acqua diuretica (sic), il passo è stato breve. Il nostro è diventato un mondo di plastica; il nostro immaginario si è plastificato; non riusciamo a fare a meno di un solo oggetto totalmente privo di parti in plastica; senza plastica non è neppure pensabile vivere.

Plastica, in fin dei conti, vuole dire petrolio: questo connubio “coessenziale” è anche decisivo per comprendere la dimensione politologica, strategica ed economia della plastica.

Usata senza scrupoli, quasi indecorosamente, da miliardi di individui, è spesso mal gestita nella sua effimera “vita commerciale”; ed è altrettanto spesso mal riciclata, non tanto (e non solo) nella ricca Europa, ma più di frequente nei Paesi in via di Sviluppo. I paesi in via di sviluppo sono quelli che tentiamo di colonizzare, da decenni, utilizzando questa insignificante formula semi giuridica e semi antropologica (in via di sviluppo) in modo involontariamente ironico: è la stessa formula che definisce lo stato ideale di molti popoli a partire da quel che per noi, i civili occidentali, deve essere il divenire universale: fatto a nostra immagine.

Usata male, la plastica sta assumendo, come informe forma di scarto marginale, vita autonoma dalla vita vera e propria; vita che parla delle nostre vite spese a consumare.

La plastica è, infine, una minaccia al nostro ecosistema planetario.

Ogni anno “finiscono” in mare circa 8 milioni di tonnellate di plastica.

Dall’anno 1964, la produzione mondiale di plastica è aumentata di venti volte; rischiando di quadruplicare entro il 2050. Per quella data, il 20 per cento del petrolio estratto nel mondo sarà utilizzato esclusivamente al fine di produrre altra plastica.

A livello mondiale, meno del 5% della plastica viene riciclato; finisce in discarica il 40% per cento circa e il resto, circa un terzo, “termina” nell’ambiente: terra, mari, fiumi, oceani.

La plastica oceanica è inerte, priva di vita al suo interno, totalmente inospitale e inorganica, pericolosa per le specie acquatiche e per gli uccelli marini; o è anche un habitat?

Gli scienziati parlano, ormai, di plastisfera, con riferimento alle immense (sotto certi aspetti “aliene”) colonie batteriche che stanno popolando gli smisurati continenti di plastica galleggianti nei mari e negli oceani del Pianeta.

Dunque, la plastica sta diventando un nuovo luogo biologico? Sì, purtroppo. La Natura provvederà senza dubbio a sé stessa, per il suo fluire e di là dal nostro bene.

Quel che rende alieno l’uomo al mondo, oggi, renderà presto alieno il mondo all’uomo!

Giovanni Bongo

 

Camminare 22

 

Mi rimetto in marcia. Non voglio pensare, non voglio pensare; eppure penso. Non voglio ricordare, non voglio ricordare; eppure ricordo.

Non voglio neppure sentire storie, non voglio ascoltare nessuno, non voglio in alcun modo recriminare.

Voglio solo andare, andare; lasciarmi dietro le cose, lo spazio, gli anni; illusoriamente, dato che ci si lascia alle spalle tutto, comunque, ma lo si porta comunque con sé, e ovunque, già solo per il fatto di volersene distanziare.

Quante parole taglienti, quanti giudizi sciocchi dichiarati con solerte malignità; quanti insulti, quante insulsaggini, quanti piccoli o grandi (indimenticabili) oltraggi voglio dimenticare.

Andare, lasciarmi dietro cose e casi, andare, ecco cosa voglio. Mi rimetto in marcia per questo ma no, mi inganno, non sono affatto sereno. La memoria delle cose è con me, la memoria dei casi, dei fatti, delle sconfitte (di quelle che ho creduto tali); la memoria degli insulti (dai quali non sono mai davvero guarito); la memoria delle insufficienze; ecco, da tutto mi voglio allontanare, camminando lungo questo sentiero terroso, ma tutto è con me; perché l’intero mio tempo mi sostanzia, senza con ciò più impedirmi il passo

Andare, voglio andare; mi rimetto in marcia, vado. Non sento il peso delle scarpe, dello zaino, della maglia (sì, perché tutto ha un peso); sento solo il mio stesso peso. Sento il mio peso.

È che non ci si può allontanare dai ricordi come se fossero incroci, vecchie strade, rovine o  pericoli.

Da bambino, sì, da bambino mi allontanavo col passo agile, e col cuore in gola, dalle cose che temevo; col passo rapido fuggivo i pericoli, i miei pericoli infantili. Crescendo ho continuato a credere di potermi lasciare dietro fatti e distanze. Non accade. Non serve. Non giova. Camminare è per il presente. Tutto è con noi: tutto quel che fummo, tutto quello che non è già più; dunque, noi camminiamo nel solo presente.

Mi rimetto in marcia sapendo che la vecchia ferita oggi è la mia sensibilità più accorta; e che il dolore antico è oggi la mia grazia più delicata. Proverò dolore, ancora, in quei punti offesi, ma sarà diverso. Io sono diverso. Io sono migliore di chi mi ha oltraggiato.

Sappi, viandante, che non potrai prendere distanza dal tempo se non nel tempo: sarà come confermare quel che vorrai omettere.

Tanto vale che tu cammini; semplicemente, è l’unica cosa da fare. Porta con te dei semi; potresti donarne a chi troverai sulla strada; se per caso incontrassi uno dei tuoi malevoli detrattori, donagli un seme. Con uno solo dei tuoi semi potresti redimere il tuo tempo offeso e il suo tempo perduto a offendere.

Giovanni Bongo

10.000

Ogni giorno; 10.000 al giorno. Almeno 10.000 ogni giorno. Tanti sono i passi da fare, ogni giorno. Così raccomandano gli esperti. Perché c’è sempre un esperto che ci raccomanda di fare quel che si è sempre saputo di dover fare.

La risposta di molti è la stessa: “Chi ce l’ha il tempo? Chi ha il tempo? Non ho neppure il tempo di respirare, figurati se posso avere il tempo di camminare, per camminare. Di o per, poco cambia. Non ho neppure il tempo per respirare, figurati se posso trovare il tempo per camminare”.
Di questo passo, lo vedremo, qualcuno non avrà il tempo di bere, per mangiare, per dormire. Alla fine, perdendo il tempo di avere tempo, non cammineremo, non mangeremo, non berremo, non dormiremo, non respireremo più: che vita sarà, saremo ancora vivi, saremo ancora vita?

Sono 10.000 al giorno. Sono i passi da fare. Tutti i giorni. Stiamo in piedi, quando siamo in piedi e se stiamo in piedi, per camminare. Abbiamo le mani e i piedi. Abbiamo gli occhi. Gli occhi sono fatti per vedere;  non solo per guardare. Vedere è fare intelligenza dello sguardo. Camminare serve anche a questo. A muoversi per vedere. A fare intelligenza del moto. Ogni giorno sono 10.000 i passi da fare. Per vedere cosa c’è da fare. Ad averne il tempo?

Per avere il tempo? Chiedetelo a chi davvero non ha più tempo: non potrà rispondere.

Chiedete a chi non può camminare. Vi dirà che il tempo che si ha è solo quello che non si perde; è il tempo che si impiega; è il tempo che si vive.

Chi non ha il tempo per camminare neppure ha il tempo di vivere; anzi, ha smesso di vivere mentre vive per non avere più tempo per altro che per lamentarsi di non aver tempo.

Sono 10.000 i passi da fare ogni giorno: salute, tempo – soprattutto vita!

G. B.

Divento Ecoista!

Vorrei essere (un perfetto) ecoista!

Vorrei non lasciare che impronte leggere, su questa Terra amata e in parte perduta.

Vorrei non mangiare più altri animali. Vorrei non muovermi più grazie al petrolio estratto (contro ogni logica) da fondali marini immacolati; vorrei non fare più uso di usa e getta, per non dover poi gettare l’uso insieme all’abuso.

Vorrei spostarmi solo su mezzi leggeri, silenziosi, puliti: in primo luogo sui miei piedi (di me stesso parte, mezzo, fine e sostanza); poi sulla mia bicicletta; e ancora su metropolitane, treni, mezzi elettrici.

Vorrei che l’elettricità non fosse prodotta al costo delle vite spezzate per produrla con carbone o atomi.

Vorrei che l’unica vera Fede fosse la fiducia; che l’Amore fosse, più semplicemente, amore.

Vorrei, inoltre, che nessuna Verità fosse tanto robusta da impedire il fiorire di tutte le altre verità.

Vorrei essere ecoista. Vorrei essere solo parte e non centro. Non voglio dominare le bestie striscianti né quelle del cielo e della terra; figurarsi quelle degli abissi. Io non sono Dio né sono tanto a Sua immagine da rendere Dio stesso a immagine nostra.

Voglio solo essere parte del tutto che è parte di altro: in finiti mondi nell’infinito.

Voglio praticare un sano egoismo, diventando quanto più possibile ecoista; per essere, insomma, tanto egoista quanto basta a preservare quel che esiste e deve poter continuare a essere.

Giovanni Bongo

 

Pietas

Pietas per questo neonato corpo elettrico – che grida, si dibatte, scalcia, piange e lotta nella sua rugosa epidermide infantile.

Pietà per questo corpo giovane – alla ricerca dell’innocenza che ha ancora: incolpevole, perplesso, diafano, spaventato, tenace.

Pietà per questo corpo maturo – ancora alla ricerca della forza e della beltà di quelle sculture di eburneo marmo incorrotto che fummo in pubertà.

Pietà per questi corpi che vogliono godere ancora  dell’ambrosia, dei sensi, della giovinezza che si fugge tuttavia nel tempo che non torna.

Pietà per noi, caotici e volitivi, famelici e bramosi, vili e ansiosi e fragili corpi sempre pronti a braccarci, a darci un po’ aiuto e molta pena, solo di rado amore e troppo di frequente reciproco tormento.

Pietas per questo corpo terrestre, per i suoi difetti d’ordine e d’etica, per le millanterie che espone, per le vacuità che esercita, per l’incapacità di perdonare sé e gli altri, per la rabbia che urla nei suoi momenti di più cupo e violento oscurantismo.

Pietà per l’odio che proviamo gli uni verso gli altri, per il nostro non vedere soluzioni dove ci sono ancora dilemmi stimolanti per cuore e testa; pietà per il nostro bisogno di nemici da abbattere e di capri sui quali far cadere la nostra insufficienza.

Pietà per la mancanza di misericordia, e di onestà, che ostinatamente esasperiamo ad ogni parola detta per ferire e non per comprendere o ascoltare o lenire o risolvere o portare amore.

Pietà per noi, da noi e in noi; pietà per i nostri corpi – perché questo siamo.

G. B.